Alpinismo

Il faro e la mina: così la Cima Grande di Lavaredo fu estromessa dai 3000 metri delle Dolomiti

La vetta conquistata da Grohmann, Salcher e Innerkofler fu decapitata nel 1915 per far spazio a installazioni belliche. Ecco come andò

Sui Monti Pallidi 86 cime svettano oltre i 3.000 metri da Punta Penia sulla Marmolada (3.343 m) fino alla Cima di Campido nelle Pale di San Martino, a quota 3.001. Le Dolomiti del Brenta in Provincia di Trento e il Gruppo della Marmolada ne contano ben 26 mentre le altre sono distribuite in modo omogeneo principalmente sul territorio delle province di Bolzano e Belluno con Il Gruppo del Catinaccio che abbraccia entrambe le province del Trentino-Alto Adige.

La prima cima over 3000 a essere raggiunta nel 1850 probabilmente è stata quella dell’Antelao a 3.264 metri da Matteo Ossi, un cacciatore di camosci, che nel 1863 ripeté l’ascesa con Paul Grohmann, Francesco e Alessandro Lacedelli.

Con la salita dell’Antelao iniziò l’epopea delle “Prime” ascensioni in Dolomiti, che vide nel viennese Paul Grohmann e nella Guida di Sesto Michl Innerkofler i due più grandi esempi di coraggio e spirito di avventura, con il secondo che farà sue le “prime” di tutte le cime più importanti in Dolomiti di Sesto preceduto solo su Cima dei Tre Scarperi e sulla Grande di Lavaredo proprio dal viennese.

Il 21 agosto 1869 la cordata formata da Paul Grohmann, dalle guide alpine Peter Salcher di Luggau (in Carinzia) e Franz Innerkofler di Sesto raggiunse la vetta di Cima Grande di Lavaredo, otto giorni dopo aver scalato il Sassolungo ( 3.183 m) in Val Gardena. Nello stesso anno il 18 luglio la medesima cordata aveva già raggiunto Punta dei Tre Scarperi (3.145 m) a pochi chilometri in linea d’aria da Lavaredo.

Peter Salcher durante la salita portò con sé un barometro che permise a Grohmann di fare un prima stima della quota sul livello del mare di Cima Grande di Lavaredo annotando le differenze di pressione dall’inizio della via e lungo i principali punti di salita. Descrisse la vetta come “una sottile cresta dove tuttavia si poteva star comodamente seduti”. La scelta di Cima Grande non nacque in Grohmann per l’altezza delle Tre Cime di Lavaredo che erano stimate tutte al di sotto dei 3.000 metri, ma per “l’audacia della loro architettura”.

L’impresa riuscì al primo tentativo e fondamentale in questo fu la conoscenza della prima parte della parete che Franz Innerkofler aveva già esplorato in diverse occasioni. Salirono lungo quella che ancora oggi, con piccole variazioni, è la Via normale.

Il faro e il cannone da posizionare sulla vetta

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra contro l’Austria-Ungheria dichiarando nullo il trattato d’alleanza con l’Impero. La dichiarazione di guerra era stata consegnata il giorno prima al Ministro degli Affari Esteri a Vienna dall’Ambasciatore italiano.

Il 29 giugno 1915 il Generale Fabri ordinò al Tenente medico Antonio Berti, noto alpinista e conoscitore delle zone del teatro di guerra, di individuare un punto su Cima Grande per collocare un faro che dall’alto della vetta potesse illuminare di notte il campo di battaglia.

L’obiettivo Italiano era di conquistare Sasso di Sesto dove erano trincerate le truppe nemiche, operazione complessa e di non certa riuscita. Un faro di 90 cm di diametro fu smontato in numerose parti, il peso complessivo del materiale da portare in vetta era di diversi quintali e fu trasportato dalle truppe alpine.

Contemporaneamente furono issati con l’aiuto di funi, un pezzo d’artiglieria da montagna e un gruppo motore-dinamo per alimenta l’enorme faro. Il cannone, secondo le note del caporal maggiore De Carlo della 2° sezione fotoelettrica e confermate dal Tenente Antonio Berti, fu collocato con alzo negativo sullo spigolo sud-est a circa 2.850 metri di quota per bersagliare le postazioni Austro-Ungariche che occupavano Sasso di Sesto. L’operazione di trasporto e successivo assemblamento dei componenti del faro, del gruppo elettrogeno e del cannone durarono ben tre settimane e furono portate a termine dagli Alpini del Val Piave e del Pieve di Cadore comandati dal ten. De Zolt e dai s.ten. Robecchi e Schirato. Il Berti nei suoi scritti esalterà le gesta di “quegli atleti, che si sono fatti abituale dimora in quei nidi d’aquile”.

Una mina cancellò la cresta descritta da Grohmann

Durante il conflitto non mancarono azioni distruttive sulle Dolomiti, alcune devastanti come le mine che in alcuni casi hanno provocato devastazioni clamorose, altre meno note ma che hanno cambiato per sempre l’orografia dei luoghi.

Per sfruttare le posizioni dominanti soprattutto del faro fu necessaria un’operazione portata a termine dai soldati del Genio: la cresta sommitale fu minata e fatta brillare portando la quota di Cima Grande di Lavaredo da 3.003 agli attuali 2.999 metri. Era proprio la piccola cresta dove Paul Grohmann Peter Salcher e Franz Innerkofler nel 1869 si erano seduti dopo aver compiuto la prima storica ascensione.

L’esplosione fu preceduta da una messa celebrata da Don Pietro Zangrande che “poi benedice quegli uomini inginocchiati, e spaziando con lo sguardo da quel culmine eccelso fino all’orizzonte lontano, benedice con loro tutti i combattenti ed i morti per la Santa Causa d’Italia“. (Antonio Berti)

Il faro rimase in funzione per i soli tre giorni necessari all’attacco a Sasso di Sesto ma Cima Grande di Lavaredo perse per sempre il diritto di rimanere tra le vette delle Dolomiti che superano i 3.000 metri.

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