Che scarpe metto oggi?
La scelta dell’equipaggiamento non può essere dettata da regole rigide, uguali per tutti. Occorre valutare il contesto dell’escursione e le proprie capacità. Perché più della scarpa vale il piede
C’è uno spot divertente che gira sui canali istituzionali del Soccorso Alpino. Protagonista è un alpinista che armato di tutto punto, casco in testa e piccozza alla mano, si aggira su una spiaggia solitaria. Con lo sguardo spaesato fissa il mare e senza muovere le labbra sta palesemente dicendo a sé stesso: “Che ci faccio io qui?” La scena seguente vede lo stesso personaggio che in camicia hawaiiana e infradito attraversa un pascolo alpino, finché incespica e fa volare in aria una ciabatta. La headline dello spot dice: “Se non andate al mare vestiti da montagna perché andate al mare vestiti da città?”.
“Equipaggiarsi correttamente per ogni avventura”, è questo l’invito del Soccorso Alpino e non possiamo che aderire al 110 per cento. Però… qualche divagazione, così al tavolino, possiamo concedercela. I termini che mi intrigano sono “correttamente” e “avventura”. Perché sono ben poco oggettivi. Ognuno di noi ha un suo “tasso” di avventura: c’è chi la trova sui pascoli, per l’appunto, e chi la trova in un concatenamento estremo in free solo. Di conseguenza anche il “correttamente” cambia. Prendiamo il caso degli infradito. L’alpinista da pascolo sarà meglio che li eviti come la peste: a lui consigliamo un paio di robusti scarponcini da trekking con suola scolpita. L’alpinista da concatenamenti invece si sentirà facilmente a suo agio con gli infradito anche sui terreni più insidiosi, e nessuno deve insegnargli nulla.
La storia dell’alpinismo è costellata di episodi memorabili. Personalmente ricordo una salita sulla Micheluzzi al Ciavazes con i Moon Boot (eravamo negli anni Settanta), e il traverso dell’allora più difficile via al Sasso Remenno con i ramponi, in tempi in cui il dry tooling non era ancora stato inventato. Ho visto gente dall’aspetto fortissimo avviarsi a piedi nudi verso i rifugi, e siccome da giovane ero stupido ho cercato di imitarli con le Dr. Scholls. Parlando di piedi nudi, ricordo anche che Messner raccontava delle sue discese sulle pietraie della Val di Funes, insieme al fratello Gunther, entrambi scalzi. E come non citare i tanti episodi di guide storiche (i Fiorelli, gli Innerkofler e chissà quanti altri) che davanti a passaggi allora al massimo della difficoltà, il quinto grado degli anni dieci o venti, si toglievano gli scarponi chiodati e procedevano con i calzettoni, o senza. Fino ad arrivare al grandissimo Edlinger, che ci aveva stupiti scalando in Verdon in costume quasi adamitico (era nel film La vie au bout des doigts, 1982).
Insomma. Ogni volta che mi fermo a contemplare le immense pareti di… scarpe di ogni colore e foggia offerte dai moderni negozi di sport, penso sempre che, più della scarpa, vale il piede. Non dimentichiamo che la storia del grande alpinismo è stata fatta con mezzi di fortuna e calzature con cui oggi avremmo paura di camminare per il nostro corso cittadino: le scarpette di corda e di feltro, le prime varappe di gomma (e chissà quale mescola), gli scarponi chiodati e i primi Vibram, e gli scarponi doppi per le spedizioni himalaiane che diventavano tombe di piedi congelati… la vera sfida è sempre stata mentale, l’abbigliamento solo un corollario.
Fine delle divagazioni. Rinnoviamo (soprattutto a noi stessi) l’invito del Soccorso Alpino, che in fondo è solo un appello alla nostra intelligenza. Scarpe giuste nel contesto giusto. Ma sogniamo anche di poter andare ovunque con i nostri soli piedi che, se li abbiamo ben istruiti, sono meglio del cervello.
Mi sembrano parole di buon senso. Troppo spesso si giustifica chi prende rischi solo perché è equipaggiato di tutto punto ed è un alpinista esperto per poi accanirsi su di una foto di un escursionista in scarpe da ginnastica non pensando che forse chi mette più a rischio la vita dei soccorritori è chi, ad esempio, non guarda con attenzione le previsioni meteo e non chi sale sui gradini di una ferrata con i sandali.