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Massimiliano Ossini: “la mia esperienza ai piedi del K2”

Il giornalista della RAI racconta le sue settimane al seguito della spedizione K2-70. Scoperte, fatiche ed emozioni che rivivremo in novembre sul piccolo schermo

Massimiliano Ossini ha seguito per molti giorni la spedizione K2-70. L’obiettivo, dichiarato già nella presentazione milanese prima della partenza, era produrre materiale in vista di un documentario che la RAI trasmetterà nei prossimi mesi. Al di là degli aspetti alpinistici, il viaggio in Pakistan e al Campo base del K2 ha rappresentato per Ossini un grande momento di scoperta.

Era la prima volta in Pakistan? Sei riuscito a farti un’impressione generale sul Paese?

Sì, era la prima volta in Pakistan e naturalmente farsi un’impressione generale del Paese è impossibile. Mi sono reso conto che ci sono notevoli differenze tra valla e valle, tra città e città. I villaggi che abbiamo incontrato salendo verso il Baltoro, per esempio, sono molto diversi da quelli che abbiamo incontrato scendendo verso il Gondogoro La. Un tratto comune è la disponibilità delle persone e la cultura del lavoro. Tutti fanno qualcosa e, a differenza di altri parti del mondo che ho visitato, non è mai capitato che un bambino chiedesse l’elemosina. Forse il lavoro che c’è da fare è sulla sostenibilità ambientale. Loro sono abituati da secoli a utilizzare materiali di origine vegetale, che quindi buttano senza tanti scrupoli (e senza far danni). Purtroppo, la plastica, arrivata di recente, viene smaltita allo stesso modo. Posso confermare che i rifiuti che ho visto non sono quasi mai di alpinisti che vengono da lontano. Ecco là ancora manca quella consapevolezza ambientale che noi abbiamo acquisito.

Che tipo di esperienza ti aspettavi e come è stata in realtà?

Sì, me l’aspettavo così, dura anche fisicamente. Anche a livello psicologico ti mette alla prova. Sono stati giorni pieni di piccole grandi incognite: non sai mai con precisione cosa accadrà domani – neppure se potrai lavarti o che cosa mangerai – e sei in un ambiente che non è il tuo. È fondamentale il gruppo. Sono stato fortunato, la nostra è stata un’ottima squadra, grazie anche ai consigli della nostra guida Michele Cucchi. Lui, per esempio, ci ha spronato a dire sempre e subito se qualcosa non andava. Rendere immediatamente noto a tutti un problema – dalla stanchezza a un’idea differente rispetto a una decisone presa – consente di liberarsi anche mentalmente. Se ti tieni dentro il problema rischi di costruire dentro di te dei castelli dannosi.

Come trascorrevi le giornate al Campo Base (lavoro, ma anche piccole incombenze quotidiane a 5.000 metri)?

Le giornate trascorrevano molto velocemente. Anche al Campo base abbiamo sempre fatto qualcosa: dalla visita al Gilkey Memorial alle camminate sul ghiacciaio, alle prove tecniche sull’uso dell’attrezzatura e alle manovre, come le discese in corda doppia. Tanto tempo era dedicato a riprese e interviste. Nei rarissimi momenti vuoti era bello stare seduti ad ammirare la grandezza di tutto quello che ci stava intorno. Mi sono concentrato a cercare di fotografare nella mia mente ciò che stavo vedendo, in modo che rimanesse per sempre dentro di me.

Hai avuto modo di compiere qualche escursione più in quota oppure in aree poco note del Pakistan?

La più impegnativa è stata arrivare al Campo 1. Stavo però davvero bene, tra andata e ritorno abbiamo impiegato 9 ore. Ho un po’ il rammarico di non essere salito al C2, però in quei giorni il meteo si è guastato e non c’è stata la possibilità di tornare in quota. Davvero un peccato.

Ha avuto molta eco la tua partenza dal CB prima del summit push. C’erano motivazioni logistiche o impegni in RAI?

In realtà non ho riscontrato questo. Anzi, devo dire che sui social quasi quotidianamente abbiamo raccontato le nostre tappe. La data del mio rientro in Italia era nota da tempo, proprio per gli impegni fissati in precedenza. Nessun mistero, quindi. Il programma originario è cambiato più volte in funzione del meteo. Era previsto che sulla via del ritorno salissimo sul Pastore Peak, ma anche questo non è stato possibile. La traversata del Gondogoro La, richiedeva meno giorni e per di più le previsioni meteo ci hanno suggerito di accelerare i tempi e fare due tappe in un solo giorno. Così siamo giunti a Skardu in anticipo, dove ho effettuato l’intervista con il presidente Montani dicendo che proprio in quel momento era in corso il summit push.

Cosa nascerà da questa esperienza?

Stiamo già lavorando al documentario che andrà in onda a fine novembre in prima serata. Racconterà la spedizione di 70 anni fa e il viaggio nostro e delle alpiniste. Parleremo del territorio e della bellezza dei luoghi, confronteremo le fatiche di ieri e quelle di oggi. Entreremo nell’anima di questa esperienza. Che rimarrà nel cuore per tutta la vita.

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