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Paesaggio rifugio, viaggio cinematografico fra i presidi delle terre alte

Il documentario di Andrea Colbacchini e Michele Trentini, incentrato sui cambiamenti delle strutture ricettive d’alta quota sarà proiettato Il 22 agosto alla Settimana della Montagna di Malé (TN)

Dove sei vecchia capanna?”. Con questo verso esordiva una altrettanto vecchia ninna nanna, capace di mettere in musica l’appello di un bambino ormai cresciuto ma ancora intento a cantare i propri luoghi d’infanzia, nei quali concetti come gioco, svago e rifugio s’intersecavano e sovrapponevano.

Gioco, svago e rifugio: tre termini che ritroviamo anche nell’odierna frequentazione della montagna, improntata su una forma di divertimento inteso alla lettera, come lo postulava il filosofo francese Blaise Pascal. Frequentare la montagna significa allora distrarsi, svagarsi dal tran tran quotidiano, de-vertere dalle responsabilità per allontanarsene, trovando rifugio in un altrove più accogliente e meno esigente.

Come dev’essere allora, fisicamente e concettualmente, il rifugio in questione? Davvero l’accoglienza è chiamata a soddisfare i bisogni altrui senza esigere nulla? E la struttura del rifugio è più un presidio o un riparo? Sono proprio questi gli interrogativi che fanno da sostrato al film documentario Paesaggio rifugio. Visioni e incontri da un altrove alpino, presentato al 71. Trento Film Festival e che verrà proiettato a Malè, in Val di Sole, il prossimo 22 agosto, in occasione della quarta edizione di Settimana della Montagna.

«Ogni gestore che abbiamo intervistato considera il rifugio casa propria», racconta Andrea Colbacchini, regista, insieme a Michele Trentini, del documentario. «Di conseguenza, anche il modo di accogliere l’ospite varia e si rimodula a seconda della struttura in questione e di chi ne ha cura». Il grande equivoco è dunque quello che vede comprendere nella definizione di rifugio realtà fra loro diversissime: per gli spazi di cui fanno parte, per le quote dove sorgono e per il target a cui si rivolgono. Una cosa, tuttavia, non cambia mai: ogni rifugista vive l’anno in funzione della stagione in rifugio, considerando gli otto mesi rimanenti alla stregua di una lunga pausa prima di riportarsi in quota. Si tratta pertanto di un lavoro identitario, oltre che totalizzante.

«Abbiamo osservato e conosciuto una varietà enorme di rifugi e gestori», aggiunge Michele Trentini, «decidendo poi d’inserire nel documentario le due interviste che ci sembravano più significative in funzione del focus che stavamo portando avanti: quella ai gestori del Rifugio Taramelli e quella al gestore di Rifugio Passo Principe».

Entrambi sono di dimensioni contenute. Il Rifugio Taramelli – nella selvaggia Val Monzoni – è l’ultimo rimasto, nelle Alpi, costruito ancora secondo la sua conformazione originale, ovvero la tipica struttura a cubo in uso nei primi del Novecento, mentre Passo Principe sorge invece su un crocevia di sentieri, nel Catinaccio, gruppo montuoso decisamente più frequentato.

«I gestori hanno però evidenziato due questioni similari», prosegue Trentini, «ovvero la trasformazione del rifugio da punto di passaggio a meta dell’escursione e la perdita di condivisione degli spazi all’interno delle strutture». Una tendenza che vale anche per altri rifugi, anche se soprattutto nei casi di strutture così piccole quest’ultima perdita è molto più sentita: si tratta infatti di costruzioni essenziali, con camerate comuni e sala piuttosto piccola. Sta di fatto che arrivare al rifugio e gustare un lauto pranzo è diventato sempre più spesso l’obiettivo generale di una giornata in montagna. Un pranzo, però, in compagnia dei propri sodali, senza persone sconosciute ad interferire nel discorso, come invece era normale fino a qualche decennio fa, grazie alla consueta prassi della condivisione di tavoli e camerate, con queste ultime che arrivavano a contare fino a dieci e più posti letto. Oggi le persone che frequentano i rifugi non vogliono tendenzialmente mangiare in compagnia di estranei, né tantomeno dormirci: due effetti dell’antropizzazione massiva che caratterizza le terre alte, costrette ad ospitare una mole crescente di turisti accettando parallelamente la sfida di non tradire sé stesse.

Nel caso dei rifugi la domanda centrale potrebbe essere appunto questa: cambiare veste, rimodularsi sulle esigenze e le aspettative di un turismo che a sua volta cambia, significa davvero tradirsi?

«Si dovrebbe anzitutto partire dalla definizione di rifugio», commenta Colbacchini. «Che cosa lo rende tale? Che cosa lo differenzia da un albergo piuttosto che da un bivacco? E soprattutto che cosa lo ha reso nel tempo un presidio e non un semplice riparo»?

Questioni che il documentario comincia a sviscerare partendo dai punti di vista di architetti e antropologi, oltre che ovviamente gestori e rifugisti. Il quadro che emerge è sicuramente eterogeneo e frammentato, un po’ come la percezione della montagna da parte di chi la frequenta. «Il rischio», ammette Trentini, «è quello di farsi prendere dalla nostalgia del passato, che impedisce di guardare al futuro in modo propositivo. È chiaro che il rifugio di oggi non è e non può essere quello di trent’anni fa, ma nemmeno di venti o di dieci. I tempi cambiano e per certi versi, se la struttura lo consente, è anche giusto che gli spazi vengano rimodulati, con camerate più piccole ed intime che non inficiano l’identità del rifugio in sé e salvaguardano al tempo stesso anche le richieste di chi lo frequenta».

Resta imprescindibile un buon grado di adattamento reciproco, capace di rendere possibile un incontro proficuo fra gestori e fruitori, impedendo così al rifugio di tornare ad essere una semplice capanna o, peggio ancora, di diventare mero monumento.

Affrontare temi come l’overtourism nelle terre alte e i suoi effetti richiede un approccio simile, che bilanci la conservazione ambientale – e di determinate tradizioni storiche e culturali – con le esigenze delle nuove frequentazioni, in un’ottica che sia il più sostenibile possibile.

«Paesaggio rifugio fa parte di un’iniziativa che si muove in questo senso», conclude a tal proposito Colbacchini , «e che è partita nel 2020 con Paesaggi del cibo, il precedente lavoro mio e di Michele, con cui affrontavamo l’analogo tema di tutte quelle pratiche agroalimentari legate alla cura del territorio e alla sua biodiversità. Il nostro viaggio continuerà con il nuovo documentario che stiamo girando, legato stavolta ai sentieri, alle vie di accesso alla montagna che ne caratterizzano giocoforza anche le modalità di frequentazione».

Tutti e tre i progetti sono sostenuti da TSM (Trentino School of Management), in particolare da Step- Scuola per il governo del territorio e del paesaggio e Adm-Accademia della montagna.

Guarda il trailer del film: https://vimeo.com/814693035.

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