In cordata

L’alpinismo è roba da visi pallidi?

Un’azienda di materiale tecnico da montagna lancia una pubblicità con un modello di colore e fioccano i commenti razzisti. Per qualcuno, incredibilmente, le montagne non sono di tutti

Dopo il caso Federer-Nadal, torniamo a parlare di pubblicità. Ma se per lo zainetto firmato Louis Vuitton potevamo sorridere, per quello che è accaduto in casa Salewa abbiamo molto meno da rallegrarci. Questi in breve i fatti. Lo scorso anno l’azienda altoatesina aveva girato un video con un modello di colore: protagonista un ragazzo, un sorridente sud-sudanese oggi cittadino francese e residente a Nizza, che indossava una maglietta tecnica e uno zaino. Qualche giorno fa, in occasione dell’avvio dei saldi di fine stagione, una foto dello stesso modello viene ripubblicata sulle pagine Facebook di Salewa, ed è qui che inizia il disastro: la pagina viene inondata da una slavina di commenti, alcuni positivi, la maggioranza razzisti, e perfino minacce di futuri boicottaggi del marchio. Salewa ha risposto nell’unico modo possibile: cancellando i messaggi degli haters (non il banner, che è rimasto). Poi il direttore marketing Thomas Aichner, come riportato da la Repubblica, ha dichiarato che le Alpi a volte vengono ancora reclamate come proprietà da chi ci vive, mentre sono di tutti coloro che le rispettano. Il che, detto nella regione dei masi chiusi e delle parate di Schutzen, suona coraggioso.

L’episodio, odioso, ci serve a due cose. Primo, a indignarci certo, ma anche smetterla di pensare che la “bolla” dell’alpinismo sia impermeabile alle peggiori pulsioni della società. Secondo, a riflettere sulla presenza e il significato della black people nella comunità allargata degli alpinisti. Quanti neri abbiamo incontrato in parete, quanti neri abbiamo visto rappresentati sulle cime delle montagne, Alpi o Himalaya che siano? Un utente di Reddit che si firma Alpine Ascender racconta: “Da quando è iniziata la mia passione per l’escursionismo, mi hanno attirato le storie di coraggiosi alpinisti che conquistano le cime più alte del mondo. Tuttavia, la mancanza di rappresentazione e di diversità all’interno della comunità alpinistica spesso mi fa domandare se davvero io posso appartenere a questo ambiente”. Un’esclusione che a volte inizia come auto-esclusione: una mountaineer americana, la biracial Rosemary Saal, ricorda come da ragazza le piacesse seguire corsi di arrampicata e alpinismo, ma quando lo raccontava alla “sua” gente, la reazione era sempre, “Oh, i neri non fanno questo. Questo è il tuo lato bianco. I neri non vanno a sciare. I neri non arrampicano”. 

Negli Stati Uniti sono nate comunità di alpinisti di colore

Il problema della rappresentatività è sicuramente più sentito negli Stati Uniti, dove la comunità afro è numerosa e gli echi della segregazione razziale continuano ad attraversare la società. Proprio in America sono nate quindi esperienze come Full Circle, comunità di alpinisti neri a cui appartiene anche la Saal, che ha portato sette dei suoi membri sulla cima dell’Everest. Un’altra di questi, Abby Dione, ha persino parlato di “de-colonizzazione” dell’Everest, riferendosi non soltanto ai summiter neri ma anche a tutti gli sherpa che storicamente (a partire da Tenzing Norgay) sono stati sottorappresentati dalla narrativa “bianca” dell’alpinismo. 

Un’altra storia esemplare, raccontata da climbing.com, è quella di Andrew Alexander King, alpinista african-american candidato alle Seven Summits. King racconta di quando, scendendo dal Kilimanjaro mal equipaggiato con shitty boots comprati da Walmart, si trovò circondato da portatori che ballavano e festeggiavano. Perché per una volta avevano un cliente nero come loro. Alcuni mesi più tardi, King fece l’incontro della vita: con Dominique Barry, alpinista di punta, californiano, che era apparso nel film di Reel Rock Black Ice, su un gruppo di neri di Memphis che fanno “scuola di ghiaccio”. Insieme ad altri iniziano una chat (il gruppo si chiama Boys in the Wood) in cui si confrontano le esperienze, si parla della difficoltà di trovare sponsor e visibilità. 

C’è grande fermento, oltreoceano, rispetto al tema della rappresentatività, in ogni ambito della società e dunque anche nell’alpinismo, anche se, lamentano i “ragazzi nella foresta”, “there are so few of us”, siamo così pochi: secondo i dati dello US Forest Service solo il 5 per cento dei visitatori dei parchi nazionali americano si identifica come minoranza razziale, e solo l’1 per cento come black. La montagna, in questo caso, diventa plastica rappresentazione della sperequazione tra classi sociali che esiste negli States. Poi ci sono le eccezioni, come Kai Lightner, un climber che ha fatto il suo primo 5.14d a 15 anni e ha vinto 12 titoli nazionali. Ma, appunto, sono eccezioni.

In Europa il tema è molto meno sentito: personalmente ricordo il film francese L’Ascension, che racconta l’incredibile vicenda del franco-algerino Nadir Dendoune alle prese col Tetto del Mondo. Ma si trattava più di una storia di sfida umana che di conflitti etnici. In Italia, dove la comunità “non-bianca” è decisamente meno numerosa, il problema sembra non esistere. Ma chissà, prima o poi passerà anche da noi lo ius soli, prima o poi le comunità nere (in senso largo) sapranno farsi notare, anche sulla cima delle montagne. Ed è per questo che gli haters razzisti si stanno già attrezzando. 

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2 Commenti

  1. Sono stato diverse volte sul Bianco. La prima volta, mentre ci preparavamo, notai tra gli alpinisti una cordata con un alpinista nero ed un’altra con =tv al seguito, di ciechi (!). Entrambi sono arrivati in vetta prima di me! Viva, bene così.

  2. Ma chissà, prima o poi passerà anche da noi lo ius soli

    ECCO COSA INTERESSA… mica l’integrazione ma la sostituzione

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