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Jacopo Merizzi e le protezioni in parete: azzerare i rischi è sbagliato. E pericoloso

«In montagna l’imponderabile accade, il rischio è concreto e va accettato, abbracciato e superato se ci si riesce. Però mai azzerato». Intervista a uno degli apritori di Amplesso complesso e di innumerevoli altre vie della Val di Mello

«La Val di Mello è un inno di libertà e leggerezza». Si conclude con queste parole la nostra intervista a Jacopo Merizzi, effettuata a seguito della tragedia del 29 maggio scorso. Quel giorno tre giovani militari della Scuola Alpina della Guardia di Finanza persero la vita mentre percorrevano la via Amplesso complesso – aperta proprio da Merizzi negli anni Ottanta sul Precipizio degli Asteroidi – a causa del cedimento di una sosta sul quarto tiro dell’itinerario. Da qui, il dibattito in merito alle protezioni in parete, annoso ma quantomai attuale e riapertosi su questo sito dopo la pubblicazione di una lettera inviata da Gabriele Pagliariccio.

«Sull’incidente in sé non volevo intervenire», esordisce Jacopo Merizzi, «sia perché la vicenda è molto triste sia perché la Val di Mello è sempre stata il simbolo dell’arrampicata naturale e libera, contrapposta se vogliamo all’arrampicata sfrenatamente protetta che a mio avviso rappresenta il massimo dell’artificiosità. Io credo che da almeno trent’anni, proprio per questo motivo, la Val di Mello stessa abbia iniziato a stare antipatica a molte persone. Viviamo in un mondo super antropizzato, dove tutto è predisposto alla fruizione dell’uomo. Immaginare una valle bellissima, nel cuore delle Alpi, dove i sentieri non sono tracciati e dove le rocce, peraltro solidissime, non luccicano di spit è qualcosa di davvero speciale, un valore aggiunto per chiunque voglia confrontarsi con la natura».

Si tratta di un luogo completamente fuori dall’ordinario, che negli anni Settanta, agli albori di questo sport, era frequentato da personaggi altrettanto fuori dagli schemi e capaci di stravolgere le regole dell’alpinismo e di trasformarlo nel gioco-arrampicata che oggi praticano in molti: qualcosa di divertente e libero, lontano dalla rigidità della montagna epica e repulsiva narrata e vissuta fino a quel momento. 

«Questo ha aperto la strada all’arrampicata sportiva», prosegue Merizzi, «che si muoveva alla ricerca delle difficoltà pure. In un simile contesto si sono susseguite diverse aperture d’itinerari, fra cui le mie. La priorità restava non tanto quella di realizzare una via, quanto piuttosto di mantenere le rocce prive di segni: passare delicati e in punta di piedi, magari anche fissando cinquecento chiodi ma poi togliendoli sempre, per rispetto di chi verrà dopo di te. Non è l’etica il punto, quanto piuttosto la libertà. Protesteranno le giovani marmotte che rischiano di perdersi, i fortissimi climber sportivi che su quelle rocce, a colpi di trapano, potrebbero aprire altri 1.000 itinerari, tutti uguali: ma spesso è anche bello fare un passo indietro».

Un messaggio molto moderno ed attuale, quantomai necessario per lasciare alle future generazioni uno spazio di gioco del tutto simile a come la generazione di Merizzi ha avuto la fortuna di trovarlo. 

«La via Amplesso complesso», dice ancora Merizzi, «è stata aperta nel 1981 seguendo questo concetto, più di quarant’anni fa: io ero legato alla mia ragazza Piera Panatti ed insieme a noi c’erano gli amici Enrico Olivo e Paolo Masa. Da allora l’itinerario in questione ha avuto fra le 600 e le 800 ripetizioni, senza mai un incidente».

Il dibattito pubblico vede però la Val di Mello – con le sue vie centellinate e rispettose dell’ambiente, separate le une dalle altre da metri di spazi incontaminati – come un luogo pericolosissimo dove arrampicare, proprio in forza delle caratteristiche raccontate da Merizzi.

«Eppure penso che rispetto ad altri luoghi, come ad esempio la Grigna, gli incidenti mortali siano stati negli anni davvero pochi», continua Merizzi. «Il discrimine forse è proprio questo: in un luogo dove gli itinerari sono aperti con quell’attenzione di cui ho parlato prima, i ripetitori prestavano molta cura e altrettanta attenzione al loro passaggio, affrontando la via con la giusta consapevolezza, anche storica».

Prestavano, al passato: perché sfortunatamente tre giovani sono invece morti, probabilmente appendendosi ad una sosta pensata per essere attrezzata ogni volta da chi la utilizza e forse prestando a quelle protezioni veloci la stessa dose di affidamento che avrebbero riservato agli spit. 

«Ma non si può assolutamente sapere com’è andata davvero», specifica Merizzi. «In montagna l’imponderabile accade, il rischio è concreto e va accettato, abbracciato e superato se ci si riesce. Però mai azzerato. Forse è questo il problema di fondo: la ricerca spasmodica di sicurezza non fa altro che aggiungere pericolo al pericolo. Se perdi tempo ed energie per cercare ad ogni costo una sicurezza fittizia, va a finire poi che questa sicurezza non solo non la trovi ma t’impedisce anche di essere lucido abbastanza per riconoscere il rischio ed il suo ripresentarsi. Chiodare le soste per renderle più sicure non è la soluzione e non lo sarà mai, specie in un ambiente iper affollato com’è l’arrampicata di oggi».

Scalare con quattro cordate davanti rende effettivamente pericoloso anche l’itinerario più semplice, perché i tempi si dilatano, la permanenza in parete si fa lunga ed insidiosa, a causa della stanchezza, dei temporali pomeridiani, dei ritardi.

«L’arrampicata sulle vie lunghe è un’attività di piccoli numeri», afferma Merizzi «dunque maledettamente elitaria. E non potrebbe che essere così. L’altro giorno sono andato a ripetere la via Luna Nascente. Avevo cinque cordate sopra di me, dieci persone in tutto: certamente pochissime se confrontate agli altri sport di montagna, eppure su quella via si è formata una coda sgradevolissima. Soste interminabili, lentezza, noia. Con la concreta possibilità di rischiare tutti quanti un temporale pomeridiano. Se le pareti fossero attrezzate sarebbero ancor più frequentate e probabilmente da persone non preparate, con un evidente moltiplicarsi dei pericoli».

Per sua natura, dunque, l’arrampicata è uno sport esclusivo, ma se lo si dice ad alta voce il rischio diventa quello di venire tacciati di elitarismo. 

«La Val di Mello è speciale e rara proprio per questo», conclude Merizzi. «Ci ricorda e ci richiama all’esclusività, alla cura, alla bellezza dell’incontaminato. Ed è un luogo che va preservato dai chiodi ad ogni costo, proprio perché si configura come una salvifica eccezione: un inno di libertà e leggerezza».

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