In cordata

Dalle palafitte a Giò Ponti

Singolari analogie tra le abitazioni preistoriche e l’opera dell’architetto milanese in Val Martello: in entrambi i casi è il tempo a ripristinare il paesaggio

Mi è capitato di passare per Castellaro Lagusello. Ero in zona, e tra un affare e l’altro cercavo un motivo per perdere tempo. Wikipedia serve a quello. Leggo infatti sul mio cellulare che nel borgo, che non avevo mai sentito nominare, ci sarebbe un sito archeologico protetto dall’Unesco e inserito nella lista dei “Siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino”, i quali (scopro ora) sono 111 e sono distribuiti per metà in Svizzera e per il resto tra Italia, Austria eccetera. Detto fatto: metto il navigatore e l’auto mi porta dalle torride piane agricole del Mantovano attraverso le prime morene del Garda. Appena la terra si muove e dalla pianura accenna una collina, l’animo si rallegra, lo sapete anche voi, e spera in una futura montagna. Castellaro Lagusello no, me ne accorgo subito, non è montagna, e basta la quota (115 metri) per certificarlo. Però è un bel posto: un pezzo di medioevo un po’ troppo restaurato, pieno di b&b e turisti, e un lago a forma di cuore e coperto di ninfee perfetto per una coppia in fuga romantica. Lì da qualche parte, tra le torbiere e le risorgive, alla fine degli anni Settanta hanno scavato e scoperto il sito delle palafitte. Nell’età del Bronzo ci abitava gente.

Le Alpi c’entrano di sicuro, basta allargare la prospettiva per accorgersi che tutti questi siti le circondano, quasi le assediano, e molti vi si addentrano perfino: tra quelli italiani ce n’è uno in Valle di Ledro. Mentre contemplo il laghetto dall’alto della torre campanaria (100 gradini malfermi, un vero esercizio alpinistico), cerco di immaginarmi tutte queste tribù di pescatori e cacciatori, che inconsapevolmente costruiscono la prima civiltà alpina e a loro modo, piantando bastoni nei pantani, iniziano a modificare il paesaggio. E mi tornano in mente altri siti archeologici di vera montagna, che, a differenza di Castellaro Lagusello, conosco bene: per esempio, la sepoltura dell’uomo di Mondeval, ai piedi del Pelmo. Anche lì gli archeologi, più o meno negli stessi anni, hanno trovato il pavimento di una capanna dell’età del Bronzo, di fronte a un lago che non esiste più. L’uomo di Mondeval, soprannominato Valmo, doveva vedersela con lupi e orsi, non diversamente dai pastori moderni.

Dalle palafitte all’albergo di Gio Ponti in Val Martello

A cena (intanto le mie faccende mi hanno riportato in pianura) qualcuno chissà perché mi parla delle sue fantastiche vacanze in Val Martello. Il nome della valle, da sempre, mi richiama due immagini: fragole e Gio Ponti. Per dirla meglio, le coltivazioni di fragole per le quali la Val Martello è famosa e un edificio color fragola del grande architetto del Pirellone, a 2160 metri di quota. In entrambi i casi, opere d’arte. 

“Hai visto l’albergo, in cima alla strada?” indago.
“Quale, quello abbandonato?”
“Sì, bellissimo, vero?”
“Già, un bellissimo ecomostro…” replica il mio interlocutore. Evidentemente pensa che io stia scherzando. “Quand’è che lo tireranno giù?”
Rabbrividisco.

A differenza delle palafitte, di cui non conosciamo né l’architetto né le esatte forme e proporzioni, dell’albergo di Gio Ponti sappiamo tutto. Fu costruito in due anni a partire dal 1936, in vista dei ghiacciai del Cevedale, finanziato direttamente dal partito fascista e dal Ministero del Turismo. Un hotel di lusso, chiamato inizialmente Sporthotel Val Martello e in seguito Hotel Paradiso, che ebbe una vita brevissima: il declino già allo scoppio della guerra, poi nel 1943 l’occupazione delle truppe naziste che ne fecero un centro di spionaggio; nel 1952 il restauro e, tre anni più tardi, la chiusura definitiva. Perché in Val Martello non si sciava e il sogno di una rete di funivie di arroccamento che avrebbero avviluppato le Alpi (ci credeva Gio Ponti, ci credeva Carlo Mollino…) era pura utopia. 

In ogni caso, l’edificio era ed è un capolavoro modernista. Oggi lo potete vedere nel suo stato di abbandono, con i cementi sgretolati, le finestre cadenti, gli intonaci coperti di graffiti. Vietato avvicinarsi, perché qualcosa potrebbe crollare. Lo circondano il bosco e la torbiera, che lentamente riprendono possesso dello spazio. Si potrebbe ristrutturare: ci hanno pensato i docenti di prestigiose facoltà di architettura, la IUAV di Venezia, la Scuola superiore di Magonza, l’École nationale supérieure d’architecture de Versailles (ENSAV), che nel 2016 hanno organizzato una mostra sul possibile recupero. Ma gli attuali proprietari (i Fuchs, gli stessi della birra Forst) pare che non siano propensi a buttar via denaro, e chi può biasimarli? 

Così il destino dell’Hotel Paradiso è lo stesso delle palafitte. Ci vorrà un po’ di tempo, perché i pali di sostegno dell’edificio non sono in legno ma in cemento armato, ma prima o poi tutto scomparirà nella torbiera, e diventerà materia per i futuri archeologi. Mentre prendo il caffè che mi terrà sveglio di notte, ripenso ai segni del nostro passaggio sulle Alpi, alle speranze sempre deluse degli uomini, che siano pescatori preistorici o architetti modernisti, e a quanto ci reputiamo immortali senza esserlo. Quanto inutilmente ci allarmiamo o ci vantiamo, per tutte quelle costruzioni che sfregiano o abbelliscono le nostre montagne, tralicci, ripetitori, grattacieli, torri medievali, opere idrauliche piccole e grandi, dighe, canali, laghetti… vanitas vanitatum.

“Non c’è bisogno di tirarlo giù” rassicuro il mio commensale. “Ci penserà il tempo a ripristinare il paesaggio”.

Un paesaggio, forse, non più umano.  

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