In cordata

Pastori stellati

Film di successo, giornali e servizi televisivi indicano nella pastorizia una strada da percorrere per raggiungere la felicità. Ma è davvero così?

Lasciatemi fare il guastafeste: questa storia dei pastori non mi convince. Esiste tutta una letteratura sulla bellezza della vita pastorale, che discende dal Vangelo (il Buon Pastore, ricordate la parabola?) e prosegue per tappe sempre più melense dalle Georgiche di Virgilio alla Pastorale di Beethoven, fino alle tremende transumanze di D’Annunzio (E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri…) in cui il pastore è dipinto come un personaggio positivo, quasi un salvatore di anime, e il gregge come una comunità di buffi batuffoli di pelo. Se lo chiedete a un sociologo o a un etologo, vien fuori che i pastori nella storia sono persone normali, un po’ buone un po’ cattive (a volte pessime), e le pecore o le mucche sono semplici macchine da carne o da latte, poverine, infestate di mosche e sempre associate a liquami e odori molesti. 

E invece eccoci qui, ancora incatenati al vecchio cliché. Al Festival di Trento ha vinto il film di Louis Hanquet, Un pasteur, girato nei Pirenei, il cui protagonista Felix, ammettiamolo, riesce a esserci simpatico, con le sue bestie e il suo secolare nemico lupo (per chi tiferemo?). Ora tocca al regista Marco Ottavio Graziano con il docu-film Verrà un’altra estate, proiettato il 18 maggio al Cuneo Montagna Festival, che racconta di un altro giovane, Christian, e della sua mucca Albina. Questo mi sta ancora più simpatico, un po’ perché Albina era anche il nome di mia nonna, un po’ perché è girato nella Valle Maira, bellissima, remota e autenticamente pastorale.

Vada per i film. Ma il trigger che mi porta a scrivere di questa nuova “moda pastorale” è stata la lettura di un articolo apparso l’11 maggio su La Repubblica di Bari, in cui Luca Giordano, 33enne della provincia di Foggia, ci parla delle sue 400 pecore e del concetto di felicità. Se quest’ultima si misura sui tempi del lavoro, in un’epoca in cui fini economisti e sindacati teorizzano la fine del lavoro organizzato, allora non ci capisco più niente. Giordano infatti dichiara di lavorare dalle 5 del mattino alle 20, 7/7, e di essere comunque felice. 

Intendiamoci: i due film citati sono tutt’altro che melensi e anzi offrono una bella dose di crudo realismo. E la scelta di Luca Giordano si basa su solide basi imprenditoriali. Allora, cos’è che non mi convince? Forse il fatto che queste storie, per quanto edificanti, non rappresentano tutta la realtà. Sulle nostre montagne la pastorizia nomade, cioè quella che prevede transumanze orizzontali e verticali e l’occupazione degli alpeggi estivi, è in crisi. Moltissime le casere abbandonate, scarso o nullo il ricambio generazionale, nonostante alcuni tentativi di rendere la professione più appetibile, come la Scuola nazionale di pastorizia promossa da diverse università italiane. Gli animali in alta quota sono accuditi da pastori rumeni e marocchini che vivono in roulotte, e se gli fai vedere un film poetico sulla vita in malga si mettono a ridere, o ti tirano in testa il bastone. Il sospetto è che storie come quelle di Felix, Christian e Luca stiano alla vera pastorizia come uno chef stellato sta alle mense aziendali. 

Mi vengono in mente poi altre storie, senza lieto fine: quella raccontata per esempio in Il vento fa il suo giro, il bellissimo film di Giorgio Diritti, girato vent’anni fa sempre in Valle Maira; o la vicenda di Daniele Moling, pastore della Val Fiorentina cacciato via dai lupi. Entrambe storie di rinuncia, di resa di fronte a un ambiente, umano o naturale, troppo ostile. Per dire che, la realtà, ha davvero tante facce.

Morale? La vita del pastore è bella, ma solo se te la sei scelta. Solo se sei un pastore stellato. 

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