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Matthews Henson, l’esploratore afroamericano che conquistò il Polo Nord

Nell’America razzista di inizio ‘900 il suo ruolo decisivo in molte spedizioni artiche fu nascosto a causa del colore della pelle. Come ammise lo stesso Peary

È il 6 aprile 1909. In una foto entrata nella storia delle esplorazioni polari, cinque uomini imbracciano ciascuno una bandiera, in piedi su un cumulo di ghiaccio sulla banchisa. Sono quattro eschimesi di nome Ootsah, Egingwah, Seegloo e Ooqueah e un afromericano, che impugna lo stendardo a stelle e strisce. A scattare la foto, è il celebre esploratore polare Robert Peary, che immortala questo momento ma senza alcuna velleità di mettere sul piedistallo i suoi compagni. Il Polo Nord è stato finalmente conquistato, ma il merito dell’impresa sarà tutto suo. All’epoca, in un’America ancora razzista e segregazionista, che aveva abolito da poco più di quarantennio la schiavitù, un cittadino nero era ancora un essere umano di serie B. Quanto agli indigeni, per Peary erano dei selvaggi da ingaggiare solo per la loro profonda conoscenza dell’ambiente artico.

L’afroamericano si chiama Matthew Henson. Nella lunga controversia su chi abbia conquistato il Polo Nord – il medico esploratore Frederick Cook o l’ingegnere della Marina Robert Peary – il mondo si è dimenticato del primo esploratore polare nero americano. Per anni al fianco di Peary, sempre paziente con un uomo dal pessimo carattere, il suo contributo ai successi dell’esploratore bianco non sono stati adeguatamente valorizzati.

Tutto nasce con una scommessa. Quando Henson incontra Peary per la prima volta, è un magazziniere a Washington. Orfano dall’età di sette anni, questo giovane nero se l’è sempre cavata: è stato mozzo sulle navi, fattorino d’albergo, guardia notturna. Ha ventiquattro anni, dieci meno dell’ufficiale Peary, che sta cercando un cameriere personale per una trasferta di lavoro in America centrale. Henson coglie l’opportunità, apprezza il viaggio e sogna di poter ripartire. L’occasione si presenta nel 1891, quando Peary organizza una spedizione in Groenlandia. Henson desidera candidarsi, sempre come cameriere dell’esploratore, ma nutre qualche dubbio. Può un nero, discendente di popoli vissuti sempre al caldo, sopravvivere al clima polare? Quando un ufficiale bianco lo sfida a tornare indietro senza aver perso neppure un dito di mani e piedi per congelamento, Henson per orgoglio accetta e l’altro scommette cento dollari che l’afroamericano non ce la farà. Inizia così la carriera da esploratore polare del primo nero americano. Vari anni dopo, Henson intascherà il gruzzolo, dopo essere tornato più volte illeso dall’Artico. A perdere ben otto dita dei piedi per congelamento, invece sarà il suo capo, Peary.

Eclettico, e fortissimo, tuttofare delle Terre estreme

Durante la prima spedizione in Groenlandia, Henson dimostra di saper fare di tutto. Cuoco, cacciatore, guidatore di slitte, si adatta senza problemi a ogni compito anche in condizioni estreme. Come ebbe a dichiarare Peary, Henson sa manovrare una slitta meglio «di qualsiasi uomo, con l’eccezione di alcuni fra i migliori cacciatori eschimesi». Dopo vari tentativi falliti di spingersi sempre più a nord, nel 1908 Peary riparte per l’Artico, portando con sé il fedele assistente per la settima volta. Spera che questa sia la volta buona per giungere al Polo. L’indomabile esploratore è legato a filo doppio a Henson: nonostante le numerose spedizioni, Peary parla malissimo l’eschimese, mentre l’afroamericano padroneggia la lingua. È lui il suo tramite con i locali, senza i quali al Polo non potrebbe sognarsi di arrivare.

Se l’ingegnere tratta sempre con sufficienza gli indigeni, Matthew Henson si è invece conquistato nel tempo la loro simpatia. Gli eschimesi lo hanno soprannominato “Matthew il gentile”, considerandolo uno della tribù. Non l’avevano osteggiato neppure quando aveva avuto una relazione con una donna eschimese, Akatingwah, peraltro sposata con un cacciatore. La donna nel 1906 aveva dato alla luce un piccolo eschimese con i capelli crespi e la pelle ambrata, senza dubbio figlio di Henson.

Raggiunto in nave il porto di Etah in Groenlandia nel 1908, Peary incomincia a prepararsi per la marcia verso il Polo. La spedizione, imponente, consta di sette bianchi, un afroamericano, 19 eschimesi e 140 cani per le slitte. Man mano che procedono, incontrando crescenti difficoltà – incluso lo scioglimento a tratti del ghiaccio, con la creazione di canali – Peary si libera di chi non era più in grado di reggere il ritmo, rispedendolo al punto di partenza. È giunto quasi all’ultimo strappo quando decide di eliminare l’ultimo bianco rimasto con lui, Robert Bartlett, al quale il dispotico Peary ordina di tornare indietro. Apparentemente senza motivo: sino a quel momento la performance di Bartlett era stata perfetta. Con Peary, nell’ultimo tratto sulla banchisa, restano quattro eschimesi e Henson.

In quel fatidico 6 aprile 1909, l’ingegnere esploratore effettua le sue misurazioni e conclude che sono arrivati al Polo Nord. I quattro eschimesi si guardano perplessi: quel posto non sembrava loro così diverso da qualsiasi altro tratto di banchisa, non c’erano animali da cacciare e non riuscivano a capire perché gli americani avessero profuso tanti sforzi per raggiungere quel luogo insignificante. Rimangono fermi per un paio di giorni, poi un esausto comandante dà l’ordine di rientrare alla base.

Disse Peary: “desideravo ardentemente prendermi tutto il merito. Sono l’unico bianco che può affermare di aver raggiunto il Polo Nord

Perché Peary sceglie proprio il suo assistente afroamericano per condividere l’ultima, eroica tappa dell’impresa? A un reporter, in seguito, Peary dichiara: «Perché, dopo una vita di sforzi, desideravo ardentemente prendermi tutto il merito. Sono l’unico bianco che può affermare di aver raggiunto il Polo Nord». Eccolo, il Peary razzista: con qualsiasi altro bianco avrebbe dovuto spartire la gloria dell’impresa, mentre con un americano nero l’eroe sarebbe stato soltanto lui. Anche se poi nel suo libro The North Pole Robert Peary aggiusta il tiro raccontando di non aver rispedito indietro Matthew Henson perché temeva che non fosse in grado di raggiungere il campo base da solo. Ma Henson, che a sua volta scrive un libro di memorie al rientro negli Stati Uniti, narra un’altra storia: era stato lui a guidare il viaggio di rientro al campo base, perché l’ingegnere era sfinito, praticamente “un peso morto”.

Comunque sia andata, l’epopea del Polo Nord era finita. Per i successivi trent’anni, Matthew Henson diventa un impiegato delle dogane e muore nel 1955. In anni più recenti, è stato messo in dubbio che Robert Peary abbia davvero raggiunto il Polo. Se così fosse, anche Henson perderebbe il primato di primo afroamericano in questo traguardo. Ma nessuno può negare che quest’uomo, che non fu accolto come un eroe al pari di Peary, sia stato un coraggioso esploratore polare, dotato di resistenza fisica e inventiva nell’affrontare le difficoltà, ed empatico con le popolazioni eschimesi. Il primo nero americano ad aver sfidato l’Artico.

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