Gennargentu, orizzonti contesi
Sul numero 124 di Meridiani Montagne dedicato Sardegna occidentale, ora in edicola, il direttore Paolo Paci porta alla scoperta della cima più alta dell’isola. Soffermandosi su vicende spesso poco note che ne hanno caratterizzato la storia
Alla vetta più alta dell’isola è dedicato l’articolo Gennargentu, Orizzonti contesi pubblicato sul numero di Meridiani Montagne dedicato alla Sardegna Occidentale attualmente in edicola. Quello scritto dal direttore della rivista Paolo Paci, non è però un articolo semplicemente incentrato sull’escursionismo o agli aspetti naturalistici del Massiccio del Gennargentu. Paci presenta il Gennargentu attraverso le storie che i suoi rilievi hanno visto e vissuto. Talune raccontate dai libri o dalle cronache, altre raccolte da testimoni, altre ancora tramandate o perpetuate oralmente. Il risultato è un articolo godibilissimo, pieno di soprese. Non sempre belle, ma tutte affascinanti.
Dal generale a cui è stata intitolata la vetta più alta del Gennargentu alla storia del primo rifugio della Sardegna, ecco qualche breve passaggio dell’articolo di Paolo Paci.
Storia di un generale cartografo
Dei quattro fratelli La Marmora, tre sono famosi generali risorgimentali. Il quarto, Alberto, è il meno conosciuto e forse il più interessante. Pure lui soldato, prigioniero in Russia durante la campagna napoleonica, alla carriera militare affiancò l’esplorazione di quell’isola del Tirreno, selvatica e sconosciuta, che avrebbe permesso alla piccola dinastia alpina dei Savoia di fregiarsi di un titolo reale: re di Sardegna. Il suo primo viaggio è del 1819, per studiare gli uccelli. Il secondo nel 1821, esule per presunta appartenenza alla carboneria. Lì si ferma dieci anni, e vi torna a più riprese, fino al 1857, dedicandosi a un certosino lavoro di rilevazione topografica che lo porterà più volte sulla cima del Gennargentu, con settimane di freddi bivacchi, e alla creazione della prima carta dettagliata dell’isola.
Il primo rifugio della Sardegna
In discesa da Punta La Marmora, dalla cresta pieghiamo sul versante occidentale, che guarda i territori di Aritzo e Desulo. Tocchiamo alcune fontane, tutte difese con staccionate dagli animali, e attraversiamo diversi canali umidi, che si notano a distanza per i folti boschetti di ontani: sono i vari roa o riu che incidono verticalmente i fianchi del massiccio. Accanto alla più bella delle fontane, quella di Mennula Cara, 1400 metri, costeggiamo le rovine di un rifugio in pietra. «È stato il primo rifugio della Sardegna» spiega Peppino, «costruito nel 1901 con gli oboli che arrivavano da tutta l’isola e dedicato ad Alberto La Marmora. Quando fu terminato, gli abitanti del Gennargentu fecero pervenire ai giornali di Cagliari una lettera indignata, in cui spiegavano che i signori di città non potevano permettersi di avere sulla loro montagna comodità che nemmeno i pastori avevano».
La strage dei lecci del Gennargentu
Daniele ci raggiunge a tavola con un vassoio di pecorini, miele e confetture. Poi siede con noi, si versa un bicchiere di vino, e con un gesto laconico indica laggiù, oltre l’ampia finestra, verso il fondovalle. «Qui era il posto delle miniere. Ma soprattutto delle foreste, da depredare. Sapete da dove venivano tutte le traversine d’Europa?»
Pare che la storia ferroviaria sarebbe stata diversa senza i lecci del Gennargentu, in particolare quelli del vallone dell’Aratu, una meraviglia naturalistica, un vero fossile vivente, che dal Donnortei discende a ovest verso il Lago di Gusana. Gli esemplari più massicci, antichi di secoli, erano abbattuti con la dinamite. E chi osava ribellarsi, dice Daniele, veniva impiccato: «Nessuno sa quanti innocenti sono stati appesi!»