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Come funziona il recupero di una persona imprigionata a mille metri di profondità?

La disavventura occorsa a Marck Dickey in Turchia ha evidenziato il lavoro dei soccorritori. La nostra intervista a Roberto Bartola, che ha preso parte all’intervento

Marc Dickey era impegnato in Turchia da diversi mesi per una spedizione speleologica e ha avuto problemi di salute nella grotta Morca a 1040 metri di profondità. Lo speleologo è stato tratto in salvo dopo circa 500 ore di permanenza nella grotta, mentre per le operazioni di soccorso sono state necessarie circa 60 ore. Un centinaio sono stati gli speleo soccorritori portatisi sullo scenario e provenienti da dieci nazioni  tra cui Turchia, Bulgaria, Polonia, Ungheria, Croazia e Italia. Le operazioni di salvataggio si sono concluse lunedì 11 settembre alle 00.35 (ora della Turchia), con l’uscita della barella dalla grotta, l’allarme era scattato domenica 3 settembre da parte dei compagni di spedizione di Dickey.

Roberto Bartola, speleo soccorritore e consigliere del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico, era tra i 46 soccorritori inviati dall’Italia in Turchia per collaborare alla complessa operazione di soccorso. Lo abbiamo raggiunto e intervistato.

Quanto è complesso recuperare un infortunato, o comunque un non autosufficiente, a 1000 metri di profondità?
La profondità non è di per sé un elemento che rende più complesso un recupero, anche se ovviamente incide per la maggiore distanza dall’uscita. Piuttosto le difficoltà in un recupero di questo tipo sono legate alla conformazione della grotta e agli impedimenti che si devono superare con la barella. Ci possono essere grotte verticali molto facili e grotte orizzontali molto difficili. In questo caso la grotta presentava meandri e strettoie che hanno reso complicata la progressione con l’infortunato imbarellato: su un percorso molto lungo questo aspetto incide.

Ci sono complicazioni di tipo “psicologico” per i soccorritori in un soccorso come questo?
Direi di no, perché stiamo parlando di soccorso organizzato ovvero di persone che si esercitano tutto l’anno per fare questa attività, non di speleologi che si improvvisano soccorritori. L’aspetto legato alla complessità e ostilità dell’ambiente è ciò su cui noi ci esercitiamo normalmente, quindi se per aspetto psicologico intendiamo la serenità degli spelo soccorritori nell’affrontare il soccorso noi siamo già pronti per questo.

Quanto conta il fatto di non conoscere con precisione l’ambiente in cui si va a operare?
Conta tantissimo nella preparazione dei materiali e delle squadre a seconda della tipologia di grotta, perché abbiamo diverse specializzazioni da usare: ad esempio una grotta con sifoni non è una grotta a meandro e questo richiede professionalità differenti.
Certamente la non consuetudine con una specifica grotta ha il suo peso in un soccorso. Anche se riceviamo in anticipo le planimetrie e le sezioni con le descrizioni delle grotte sappiamo che tali descrizioni sono fatte da speleologi per descrivere la grotta ad altri speleologi non  per descriverle ai soccorritori e questo è un po’ diverso. Infatti la prima cosa che abbiamo fatto, una volta sul posto, è stata mandare una nostra squadra di soccorritori dentro per prendere visione della situazione e vedere quali problematiche avremmo avuto per il recupero. Una volta identificato il ramo della grotta in cui si doveva lavorare si è progettato l’intervento secondo la conoscenza del territorio. I nostri soccorritori sono in grado di rispondere a tutte le difficoltà che incontrano, non ci fa paura scendere e tirare fuori una barella ma, per gestire una grotta lunga e profonda, preferiamo pianificare in base a informazioni “nostre”.

Nel 2014 c’è stata una grande operazione di soccorso internazionale in Alta Baviera nell’abisso di Riesending-Schachthöhle, anche quello a quasi a mille metri di profondità: similitudini?
In Baviera il soccorso è durato di più perché le condizioni del ferito necessitavano di più soste per monitorarlo, mentre in questo caso la persona non era infortunata ed era collaborativa. Nella stessa grotta feriti diversi necessitano di approcci diversi. In Baviera c’era anche acqua che entrava a complicare le operazioni. Si è trattato di due soccorsi molto diversi. Comunque molti dei soccorritori che erano entrati in grotta in Germania erano anche qui in Turchia: quella bavarese è un’esperienza che fa parte del patrimonio di conoscenza delle nostre squadre.

Gli italiani sono stati affiancati da soccorritori di altre nazionalità all’interno della grotta?
Abbiamo cercato di evitare squadre miste, perché la comunicazione è importante e la stessa lingua facilita le operazioni condivise. A livello internazionale siamo abbasta affiatati e questo fa sì che ci si capisca anche al volo. Anche se in qualche caso abbiamo adottato squadre miste, questa volta abbiamo lavorato prevalentemente da soli, anche perché abbiamo una capacità di lavoro che copre tutte le competenze.

I 46 speleo soccorritori italiani sono tutti sono entrati in grotta?
Non tutti sono entrati ma tutti hanno fatto qualcosa, dal primo che è entrato a quello che è stato a cucinare al campo, alla squadra di backup e persino a quelli che dal’Italia hanno gestito i rapporti con la Turchia. Il soccorso organizzato non è fatto di supereroi ma è, appunto, un’organizzazione di tante persone dove ciascuna fa la sua parte. Un ingranaggio complesso dove ogni pezzo ha un ruolo essenziale e i pezzi devono essere tanti.

Come possiamo quantificare l’apporto dato da noi italiani alle operazioni di soccorso?
Noi abbiamo mandato un contingente numeroso, il più importante dal punto di vista operativo perché abbiamo uno dei soccorsi che in Europa è tra i più attivi nella formazione, tanto che formiamo anche altre realtà europee. Diciamo che gli altri ci aspettavano e che abbiamo fatto del nostro meglio. Ma in un soccorso come questo qualsiasi gruppo nazionale è importante. Senza i croati, per esempio, avremmo avuto molte più difficoltà.

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