Attualità

La tragedia del K2. Le opinioni di Camandona, Meroi, Mondinelli e Panzeri

A tre settimane dalla morte di Muhammed Hassan, scavalcato ancora agonizzante da decine di persone, abbiamo interpellato quattro grandi alpinisti, tutti saliti sulla vetta del K2 senza ossigeno. Riflessioni, proposte e provocazioni a bocce ferme.

Un pugno nello stomaco. Violentissimo, di quelli che ti fanno piegare in due e ti lasciano senza fiato. Le immagini, rimbalzate via social in tutto il mondo, di Muhammed Hassan agonizzante sul traverso a circa 8.300 metri di quota e scavalcato da decine di aspiranti conquistatori del K2 senza che nessuno intervenisse concretamente in suo aiuto hanno lasciato il segno. Non avremmo mai voluto vederle nel loro crudo realismo. “Occhio non vede, cuore non duole” recita l’antico adagio, lavando le coscienze di molti.

Quel 27 luglio, ben raccontato da Stefano Ardito nel suo blog, ha lasciato più di un segno. Quello labile del mondo social che, salvo rarissime eccezioni, ha già archiviato il dramma. Dopo tre giorni di sdegno urlato e unanime, poche voci continuano a parlare di quella tragedia e per lo più su aspetti marginali, come le accuse alla Harila di non essere intervenuta in aiuto (come se la norvegese fosse stata la sola lassù).

E quello più intimo e profondo inciso nelle coscienze dei più attenti o di coloro che meglio di tutti conoscono quei luoghi e quelle situazioni. Pochissimi tra di loro hanno preso pubblicamente parte al dibattito. Il silenzio dei protagonisti degli Ottomila è parso assordante. Per questo a tre settimane da quella tragica mattina, quindi una volta affievolita l’ondata emotiva, abbiamo voluto ascoltare alcuni tra gli alpinisti italiani che sono saliti sul K2 senza ossigeno: Marco Camandona, Nives Meroi, Silvio Mondinelli e Mario Panzeri (in rigoroso ordine alfabetico). A loro abbiamo posto due sole domande – Hassan poteva essere salvato? Perché la maggior parte degli alpinisti di punta ha taciuto? -, da loro abbiamo raccolto sfoghi, opinioni ed esperienze.

Marco Camandona

Camandona

Difficile dire se potesse essere salvato, non sappiamo neppure che tipo di lesioni avesse riportato nella caduta. Di certo aver rotto la maschera per l’ossigeno ha ridotto di molto le sue possibilità di sopravvivenza. Oggi si inizia ad usare l’ossigeno a 6.000 metri, non c’è acclimatamento e se qualcosa va storto sono guai serissimi. Poi bisogna capire chi c’era con lui. Di solito gli sherpa si aiutano tra loro, ma a volte prevale l’interesse del cliente. Certo, è strano che nessuno gli abbia passato un po’ di ossigeno. Mi astengo dall’entrare in certe polemiche se non so esattamente cosa è accaduto, e vedo che questo vale per quasi tutti coloro che hanno familiarità con gli Ottomila. Voglio però ribadire che occorre rispettare le regole base dell’alta quota, senza scorciatoie. L’ossigeno a quote così basse permette a quasi tutti di raggiungere la vetta ma, come detto, in caso di imprevisti sei fregato. Poi voglio sottolineare che a fronte della grande richiesta dei clienti, le agenzie locali hanno letteralmente “fame” di portatori. Non bastano mai. Per questo molti ragazzi vengono mandati allo sbaraglio senza adeguata formazione. Ma poi sono proprio questi ultimi a pagare il conto alla montagna.

Nives Meroi

Nives Meroi

Quel traverso è un punto molto delicato e ad altissima quota, il soccorso è molto difficile e sono necessarie molte persone, due o tre non basterebbero. In ogni caso prima di esprimere un giudizio occorre valutare molte variabili, la fatica, la poca lucidità, la quota, le aspettative di ciascuno. Sembrano comunque scomparsi i valori fondanti della cordata tradizionale. Un tempo c’erano le spedizioni preformate. I componenti magari non si amavano troppo tra loro, ma l’imperativo era l’integrità di tutti. Oggi questo è quasi scomparso. Nelle spedizioni commerciali manca un collante, ognuno pensa a sé stesso. Inoltre, si delegano le scelte a un’entità astratta come il gruppo, nessuno si sente responsabile e alla fine nessuno sa esattamente cosa sta per fare e perché. È un atteggiamento rischioso oltre che poco consapevole. Io vieterei l’uso dell’ossigeno così su quelle montagne andrebbe solo gente preparata e cosciente, anche se non si ridurrebbero automaticamente gli incidenti.
Come tantissimi colleghi non ho partecipato al dibattito scatenatosi su Internet. Niente di strano, quel mondo non mi appartiene più, non è più il nostro. In tanti avvertiamo un senso di estraneità rispetto a quello che accade oggi sugli Ottomila. Dopo la salita al Manaslu ho detto mai più, eppure ci sarebbero ancora tante vie interessanti da provare. Per contro questa tragedia ha riportato sotto i riflettori i temi del sovraffollamento e dei record. Speriamo che serva a far riflettere.

Silvio Mondinelli

Silvio Mondinelli

Un fatto osceno. Non so se quel ragazzo poteva essere salvato, ma di certo ci avrei provato, come mi è accaduto in varie altre occasioni. E lo stesso avrebbero fatto tanti altri alpinisti insieme ai quali ho arrampicato da quelle parti. Abbiamo rinunciato a vette, abbiamo corso rischi ma per noi vale il detto “provarci sempre”. Va detto, però, che noi guide dell’arco alpino, e in generale tutti i professionisti occidentali, abbiamo una cultura diversa da quella nepalese o pakistana. Non migliore o peggiore, semplicemente diversa. E di questo occorre tener conto. In ogni caso va detto che la montagna è cambiata, l’ansia di raggiungere l’obiettivo prevale su tutto, tutti si sentono in grado di provarci. Ho perfino visto gente raggiungere la vetta di un Ottomila senza saper piantare un chiodo. Le regole della montagna, della solidarietà, della mutua assistenza non possono venire cancellate in nome di una conquista che alpinisticamente vale poco. In Pakistan, poi, i portatori devono ancora crescere, sono molti quelli inadeguati, non preparati all’alta quota e alle sue emergenze.
Da qualche tempo si sente parlare di dotare i campi base in Nepal di squadre di soccorso fisse, finanziate dalle agenzie commerciali e da una percentuale della tassa per l’ascensione richiesta dal governo. Potrebbe essere una buona idea, ma non risolverebbe il problema dell’approccio giusto all’ascensione.

Mario Panzeri

Mario Panzeri

Non ho approfondito tanto la questione, sono ormai lontano da quelle zone. Dopo il mio quattordicesimo Ottomila sono tornato in Himalaya solo una volta, nel 2014, per tentare una via su un Settemila. Penso però che sarebbe stato molto difficile salvare Hassan. In un posto come quello sarebbero state necessarie almeno quattro o cinque persone per stabilizzarlo e poi portarlo fino alla “Spalla”, a 8.000 metri di quota, dove sarebbe stato più semplice e sicuro prestare qualche intervento. Operazioni lunghe e faticose, quasi impossibili se chi interviene non usa ossigeno e non è adeguatamente preparato. Questo episodio fa molto riflettere, molto lassù deve cambiare e non si tratta di tornare indietro. A mio avviso, per esempio, l’uso dell’ossigeno è il minore dei problemi e neppure vanno demonizzate genericamente le agenzie. Deve cambiare la mentalità.

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Un commento

  1. L´Alpinismo “commerciale” non ha “anima”.Conosco le immense difficoltá dell´AIUTO in “alta quota” e a volte anche in bassa quota..ma tutto quello che é POSSIBILE si deve fare …e non si compra e non si paga.
    Non si scala una vetta perché hai i soldi e sei appena un fagotto pesante trasportato,ma perché sei preparato a cavartela…possibilmente anche da solo..

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