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Caccia a “el diaòl” sulle Dolomiti bellunesi nel film “La Pelle dell’orso”

Ambientato negli anni Cinquanta sulle Dolomiti bellunesi (ma girato in Val di Zoldo), "La pelle dell’orso" (2016) di Marco Segato adatta il romanzo di Matteo Righetto e racconta in una fiaba nera lo scontro tra gli uomini e un orso

Colle Santa Lucia, Dolomiti bellunesi, anni Cinquanta. Tra i boschi di Col e Fodòm, due valli dell’antica ladinia, c’è una presenza spaventosa che terrorizza gli abitanti del luogo. Lo chiamano “el diaòl”, il diavolo, ed è un orso bruno che la notte si avventura in paese sventrando mucche e altre bestie, principale fonte di sostentamento per gli allevatori locali. Una rovina per chi vive allevando animali, ma, soprattutto, un terrore ancestrale che dalle soglie del bosco minaccia la tranquillità della vita paesana.

Questa è la premessa narrativa di La pelle dell’orso (2016), esordio alla regia di Marco Segato che riadatta per lo schermo l’omonimo libro di Matteo Righetto. Una fiaba a tinte scure che parla del rapporto tra l’uomo e la Natura, ma anche tra l’uomo e i suoi stessi fantasmi, resi metafora proprio da quel diaòl che per chi lo caccia diventa una sfida con i propri limiti, un viaggio di scoperta nel proprio passato.

Il protagonista di questo racconto è Pietro Sieff (interpretato da Marco Paolini, attore e drammaturgo che ha scritto Il racconto del Vajont), un ex galeotto che alterna le sue giornate tra il lavoro estenuante nella cava di pietra e serate nel locale paesano dove non sembra mai vedere il fondo del bicchiere.

In paese tutti lo disprezzano e lo deridono, lo vedono come un buono a nulla. Come se non bastasse, Pietro è vedovo e vive con il figlio Domenico (Leonardo Mason) con il quale è severo e distante. È evidente che Pietro è tormentato da un dolore del passato, e questa sofferenza lo pervade. Una sera, al locale, il padrone della cava di pietra continua a deridere Pietro senza sosta. Stanco di sopportare tali umiliazioni, Pietro decide di sfidarlo: se riuscirà a uccidere l’orso, il padrone dovrà pagarli 600.000 lire; altrimenti, Pietro si impegnerà a lavorare gratis per lui, spezzando pietre per un intero anno.

Zaino in spalla, fucile sottobraccio e qualche provvista (un pezzo di formaggio, un po’ di speck… e una bottiglia di spirito), Pietro è pronto per la sfida della sua vita, ben consapevole che un ritorno a mani vuote non è tra gli scenari possibili: a questo, per Pietro, sarebbe preferibile la morte. Il figlio Domenico non ha però intenzione di lasciarlo solo, e con un fucile regalatogli da un paesano raggiunge il padre nel bosco per cercare insieme a lui l’orso. Una scusa, per Pietro, per riavvicinarsi al padre e comprendere finalmente il suo dolore.

La caccia all’orso come viaggio introspettivo

Nel film, l’orso incarna la paura del protagonista e insieme la meraviglia della Natura, ma ancora più in generale la vita e le sue imprevedibili strade. Seguire l’orso per ucciderlo è un obiettivo di vitale importanza per Pietro, ma dietro questa volontà si nasconde una profonda voglia di riscatto. Faccia a faccia con l’animale, però, l’uomo non vede che se stesso, le sue paure (insieme alla meraviglia di fronte a una creatura così maestosa). E così, alla resa dei conti, el diaòl non è più il maligno ma una creatura che lotta e si difende tanto quanto l’uomo.

Il viaggio che compie il giovane Domenico, invece, non è di riscatto ma di scoperta. Domenico non conosce il suo passato, non sa come sia morta sua madre né come mai il padre sia stato in carcere. Così come Pietro si lancia sulle tracce dell’orso, Domenico si mette sulle tracce del padre, osservandolo attentamente e cercando di rompere la barriera che li separa, una parete di pietra impenetrabile simile alle nude vette che li circondano, e che offrono panorami mozzafiato. 

Il set del film in Val di Zoldo

Sulle soglie del Cadore, ecco la vista della Val di Zoldo. Anche se la storia è ambientata a Colle Santa Lucia, è qui che il film è stato girato, tra il maggio del 2015 e il luglio successivo, per sette settimane.

Attraversata dal torrente Maè, la Valle ha accolto troupe e attori nel pittoresco borgo di Fornesighe, un villaggio con antiche costruzioni di legno, i tabià, utilizzati in passato come fienili e stalle. Nel film, viene rappresentata anche la suggestiva processione della Gnaga (una maschera di legno appartenente al folclore locale), il carnevale che si tiene a Fornesighe ogni primo fine settimana di febbraio, dal tardo Ottocento fino ai giorni nostri. Tra i paesaggi ripresi nel film si vedono anche il bosco di Sottorogno, il laghetto del Vach, la Val Pramper.

Il film è disponibile per lo streaming su RaiPlay.

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