Meridiani Montagne

Storie di rifugi e rifugisti

Testo di Serafino Ripamonti, tratto dal numero di Meridiani Montagne “Sentieri e rifugi di Lombardia”

Agli albori del Novecento sorgeva il turismo alpino, e i rifugi erano poco più che “capanne”, strutture che è un eufemismo definire rustiche, destinate a offrire nient’altro che un tetto sopra la testa e al massimo un piatto di minestra calda ai primi escursionisti e alpinisti che, proprio allora, cominciavano a esplorare il mondo ancora sconosciuto delle alte quote. Quello che li rendeva preziosi era semplicemente il loro ostinato essere lassù, come un’ultima “casa accogliente”, un’isola nel nulla, una piccola enclave del mondo degli uomini circondata da una natura splendida quanto ostile, nella quale era bello immergersi, ma dalla cui soverchiante potenza era essenziale sentirsi protetti.

Il primo rifugio moderno delle montagne lombarde

Fra le salite più ambite della seconda metà dell’Ottocento c’è quella del Pizzo Bernina, il gigante delle Alpi Centrali. La sua cima di 4049 metri è stata salita per la prima volta nel 1850, lungo il versante svizzero, ma il lato meridionale della montagna, a cui si accede dalla Valmalenco, negli ultimi decenni del secolo è ancora quasi sconosciuto, e molti sono in cerca di una via per raggiungere da lì la vetta. Proprio per dare supporto alle comitive impegnate nel tentativo di ascensione, nel 1880 la sezione valtellinese del Cai, su suggerimento di Damiano Marinelli, uno dei pionieri dell’alpinismo in Italia, inaugura il primo rifugio moderno delle montagne lombarde: la Capanna Scerscen, un edificio posto a 2813 metri, lungo quella che oggi è la via Normale italiana al Bernina. Costituito in origine da due semplici locali, disponeva di un dormitorio per i signori e un sottotetto per le loro guide, un focolare e stoviglie per la cucina. Sembra quasi impossibile che quella prima piccola capanna si sia trasformata nei decenni nell’odierno rifugio Marinelli-Bombardieri, uno dei più frequentati di tutte le Alpi lombarde.

Tempo libero e alpinismo operaio

Con il Novecento, l’alpinismo, da passatempo elitario riservato a pochi benestanti, si trasforma in una passione popolare, praticata da migliaia di persone.
Le montagne lombarde sono uno dei principali teatri di questa vera e propria rivoluzione di costume, e i rifugi, che nel giro di pochi decenni sorgono e si moltiplicano un po’ ovunque, ne sono il simbolo. Un poco alla volta, fra le montagne, ai signori si affiancano i rappresentanti della nuova classe operaia che, con l’avvento dell’industria e delle fabbriche, sta popolando le città della pianura come Milano. La domenica, la fabbrica rimane chiusa e, finalmente, anche i proletari possono concedersi il lusso di coltivare le proprie passioni. Le montagne sono lì, all’orizzonte della pianura, un eden a portata di mano e di tasche…Ma in una sola giornata non è facile raggiungere le grandi vette, dove si può praticare il “vero” alpinismo: ecco quindi che la meta privilegiata diventano le cime delle Prealpi lombarde.

Le Grigne, il Resegone e i Corni di Canzo sono le mete più vicine a Milano, ed è lì che ogni fine settimana si dirigono le comitive, spesso ben distinte per censo e per classi. Ci sono gli elitari membri del Cai, i rappresentanti della media borghesia riuniti in associazioni come la Sem, Società escursionisti milanesi, o la Sel, Società escursionisti lecchesi, poi svariate sigle di chiara estrazione proletaria come la Saoas, Società alpina operaia Antonio Stoppani, l’Uoei, Unione operaia escursionisti italiani, o l’Ape, Associazione antialcoolica proletari escursionisti, il cui motto, “Per una nuova umanità contro l’alcool”, ben rappresenta gli obiettivi filantropici del sodalizio e i problemi sociali del tempo… Ciascuno fa gruppo a sé e ciascuno vuole avere la propria “casa” fra i monti.

Cima del Grignone, la casa dei milanesi

I primi a muoversi sono i soci del Cai Milano: nel 1881 edificano la Capanna Moncodeno, sul versante nord della Grigna Settentrionale, che però avrà vita breve, distrutta pochi anni dopo da una valanga. Per i membri del sodalizio milanese il Grignone, dalla cui cima si può ammirare uno splendido panorama su gran parte delle Alpi e della pianura, è la montagna prediletta, meta, ogni domenica, di numerosissime comitive. Per questo, nel 1895, erigono proprio lì una nuova struttura: la Capanna Grigna Vetta. I 2409 metri della cima del Grignone non si possono definire certo altissima quota, ma attorno al piccolo rifugio prealpino, sin da subito, si tessono curiosi paralleli con uno dei teatri del grande alpinismo. La Capanna Grigna Vetta è, infatti, il secondo rifugio delle Alpi italiane a sorgere sulla cima di una montagna, dopo la Capanna Osservatorio Regina Margherita, eretta nel 1890 sulla Punta Gnifetti del Monte Rosa.

All’alpeggio con il poeta

Subito dopo il Cai Milano, la Sem e la Sel costruiscono le loro capanne per accogliere le comitive che si dirigono verso una meta delle Prealpi ancora più raggiungibile e frequentata del Grignone. Per arrivare ai piedi della Grigna Meridionale o Grignetta, infatti, è sufficiente scendere alla stazione ferroviaria di Lecco e da lì prendere il tram che porta fino al rione di Malavedo, da dove, con una camminata di poco più di un’ora lungo la Val Calolden, si raggiungono i Piani dei Resinelli, l’alpeggio da dove partono i sentieri che risalgono gli scabri pendii della montagna. Fra i prati e i boschi dei Resinelli sorgono poi tanti altri rifugi, fra cui il “rifugio albergo” Carlo Porta, intitolato al celebre poeta dialettale lombardo e costruito nel 1911 grazie a una donazione dell’omonimo nipote, è destinato a offrire ai membri più abbienti del Cai Milano un’accoglienza “deluxe”, come testimonia ancora oggi la meravigliosa sala da pranzo rivestita in pannelli di legno massiccio, nella quale davvero si respira la storia di queste montagne e della loro frequentazione.

Fiorelli, l’epopea di una dinastia

Per molti abitanti delle valli alpine il turismo diviene un’alternativa importante all’economia agricola o all’emigrazione, e il mestiere di capanàt, non di rado condotto parallelamente a quello di guida alpina, si trasforma in una professione redditizia, che spesso si trasmette di padre in figlio. Esemplare è l’epopea della Val Masino, dei suoi rifugi e della storica dinastia dei Fiorelli. Seguendo le orme del padre Giulio, che negli ultimi decenni dell’Ottocento era stato protagonista dell’esplorazione del versante meridionale del massiccio, nei primi del Novecento Giacomo Fiorelli si avvia a una brillante carriera di guida alpina e assume la gestione del rifugio Gianetti, edificato nel 1912 dal Cai Milano alla testata della Val Porcellizzo, al cospetto di vette destinate a entrare nel mito dell’alpinismo, come il Pizzo Badile e il Cengalo. Dotato di un’indole decisamente carismatica, Giacomo diviene un vero e proprio influencer ante litteram, capace di ispirare e far sognare scalatori e clienti del rifugio con i suoi racconti e i coloriti modi di dire.

Il clan estremo dei Lenatti

Con la Valmalenco e il mondo ghiacciato del Disgrazia e del Bernina si intrecciano invece le vicende di un’altra dinasty valligiana: quella dei Lenatti. Anche la loro è una tradizione di guide alpine, cominciata nell’Ottocento con Silvio Lenatti, maestro nell’arte di condurre i clienti in equilibrio instabile lungo affilate creste di neve e ripidi pendii di ghiaccio. Il figlio Livio segue le sue orme nella professione, a cui affianca anche la gestione del rifugio Gerli-Porro, costruito nel 1936 all’Alpe Ventina. Da allora, le diverse generazioni dei Lenatti si sono alternate nella conduzione del rifugio. Le vicende della grande famiglia dei Lenatti ci portano poi fino a 3600 metri di quota, sulla Forcola di Cresta Guzza, a cavallo fra la Valmalenco e la Svizzera. È lì che sorge la Marco e Rosa, la più alta ed “estrema” delle capanne lombarde, posta quasi alla sommità del Bernina.

La vocazione dell’alta quota

La capanna nacque nel 1913 come semplice bivacco non custodito, intitolato ai coniugi Marco e Rosa De Marchi che ne finanziarono la costruzione. Già nel 1929, in virtù della grande affluenza di alpinisti, si dovette però provvedere a un servizio di custodia nella stagione estiva. In quei primi anni fare il capanàt alla Marco e Rosa era davvero un’impresa che non è esagerato definire eroica. Non è un caso che, sin da allora, il ruolo di rifugista della Marco e Rosa è stato sempre ricoperto da esperte guide alpine. Anche oggi fare il custode di rifugio a ridosso dei 4000 metri rimane molto di più di un semplice mestiere. È una vera vocazione.

Altri approfondimenti sul numero 122 di Meridiani Montagne “Sentieri e rifugi di Lombardia”.

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