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Da dove arriva la plastica dell’Artico?

La plastica che finisce nei mari è tanta, tantissima: si stima che siano circa 8 milioni di tonnellate l’anno (di cui quasi 600mila nel solo Mediterraneo), che sarebbero l’1-3% delle oltre 380 milioni di tonnellate di plastica che vengono prodotte annualmente nel mondo. Questa è abbastanza una certezza, dimostrata nel tempo da studi autorevoli pubblicati sulle principali riviste scientifiche, come Science e Nature. Meno semplice è capire dove va, questa plastica.

Tutta la plastica che non vediamo

Il punto è che la plastica che finisce nei mari non rimane nelle condizioni in cui è entrata (viene sminuzzata dall’erosione dell’acqua e degli scogli) e soprattutto non resta ferma: il moto ondoso la porta in giro per il mondo e raramente la si ritrova dove ci si aspetta di ritrovarla. È il cosiddetto Missing Plastic Problem, ma adesso un progetto di citizen science potrebbe fornire qualche risposta.

Un gruppo di ricercatori dell’Alfred Wegener Institute di Bremerhaven, in Germania, guidati da Melanie Bergmann, Anna Natalie Meyer e Birgit Lutz, ha scoperto in particolare che i frammenti di plastica ritrovati (sin qui inspiegabilmente) nell’Artico avrebbero appunto origine in diverse parti del mondo.

Per arrivare ai risultati del loro studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Marine Science, i membri del team hanno analizzato la provenienza dei detriti raccolti sulle coste delle isole Svalbard facendosi aiutare dalle persone: negli ultimi 5 anni, hanno chiesto a chi ha viaggiato in barca a vela nell’Artico di raccogliere i frammenti di plastica trovati lungo le coste. Hanno poi analizzato questi resti, scoprendo che oltre il 30% dei campioni che riportavano ancora etichette proveniva dall’Europa, con una percentuale “significativamente elevata” originaria proprio della Germania.

Le colpe del Vecchio continente

Secondo gli autori della ricerca, questi risultati dimostrerebbero una volta di più come i Paesi industrializzati e le economie più forti potrebbero contribuire ad a difendere ecosistemi come quello dell’Artico, di cui sono fra i più grandi inquinatori, forse anche inconsapevolmente: “Dal 2016 al 2021 abbiamo coinvolto le persone nella raccolta del materiale – ha spiegato Bergmann – Successivamente abbiamo analizzato i residui e scoperto che solo l’1% presentava iscrizioni o etichette che permettevano di ricostruirne l’origine”.

Da parte sua, Meyer ha ricordato che “studi precedenti hanno dimostrato che l’inquinamento da plastica proviene da fonti sia locali sia remote”, con una differenza: “A livello locale, la plastica viene immessa nell’oceano da comunità che si basano su sistemi di gestione dei rifiuti scadenti”, mentre “i frammenti remoti vengono trasportati dai fiumi e dalle correnti oceaniche”. È appunto la Missing Plastic di noi europei, che rappresenta nuove sfide per gli ecosistemi artici, già in difficoltà a causa dei cambiamenti climatici: “Per affrontare il problema in modo efficace è necessario migliorare la gestione locale dei rifiuti e ridurre la produzione globale di plastica – è la conclusione di Bergmann – Si stima che circa l’11% dei prodotti di plastica raggiunga i corsi d’acqua, ma non possiamo permetterci questo livello di inquinamento”. Non più, almeno.

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