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Una serata storica e commovente. L’incontro di Roma tra la Comunità Ebraica e il CAI

Agnese Ajò, Renzo Ajò, Marco Alatri. E poi Roberto Almagià, Tullio Ascarelli, Giacomo e Benedetto Dell’Ariccia. Il momento più commovente dell’incontro di mercoledì 25 gennaio al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma, tra il Club Alpino Italiano e la Comunità Ebraica è arrivato alla fine, con la consegna di 30 “tessere alla memoria” da parte di Antonio Montani, presidente generale del CAI, ai discendenti dei soci cacciati 84 anni fa. Uno dopo l’altro, i nomi sono echeggiati in una sala al tempo stesso sorridente e commossa.

La triste vicenda dell’espulsione (anzi, “epurazione”) all’inizio del 1939, dei soci “non ariani” del CAI dopo la promulgazione delle leggi “per la difesa della razza” è stata certamente una tragedia minore rispetto alla persecuzione aperta e alla Shoah che in Germania erano già state avviate, e che in Italia sono arrivate qualche anno dopo.

Ma è rimasta per un tempo lunghissimo una memoria scomoda e quasi nascosta del Club Alpino, che dopo il ritorno della democrazia e della pace non ha pensato a scrivere almeno una lettera di scuse agli “epurati”, molti dei quali avevano già ripreso autonomamente la tessera.

Ad affrontare la ferita, nel 2021, è stato Lorenzo Grassi, giornalista, speleologo ed escursionista romano appassionato di storia, che ha dedicato una ricerca ai soci espulsi dalla Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano. Nello stesso periodo, la riscoperta degli archivi della Sede Centrale del CAI per gli anni dal 1929 al 1945, quelli del regime fascista e della guerra, ha consentito a Stefano Morosini e ad altri storici di occuparsi della questione.

Prima della Giornata della Memoria del 2022, ho scritto di questa vicenda, e del prezioso lavoro di Grassi, sul quotidiano Il Messaggero e su Montagna.tv. Il Club Alpino, da parte sua, ha dato vita a un gruppo di lavoro composto da Milena Manzi, Fabrizio Russo e Angelo Soravia, che ha portato la questione all’attenzione di tutte le Sezioni. Vincenzo Torti, all’epoca presidente generale del CAI, si è dato a sua volta da fare.

All’incontro del Centro Il Pitigliani hanno rappresentato il Club Alpino Italiano il presidente generale Antonio Montani, quello della Sezione di Roma Giampaolo Cavalieri, e i tre membri del gruppo di lavoro. “Il CAI è figlio di tutta la sua storia, non solo delle vette conquistate” ha detto Soravia, dopo aver ricostruito la lenta ma inesorabile trasformazione del Club Alpino (ribattezzato Centro Alpinistico per cancellare la parola inglese) in un’appendice del regime. “Nel dopoguerra è mancata una vera riflessione critica” ha concluso.

“In passato ha prevalso il desiderio di oblio, oggi i soci epurati devono rientrare nella nostra comunità. Gli archivi sono a disposizione” ha aggiunto Giampaolo Cavalieri. “Sono onorato e commosso di essere qui. Sono un architetto, non avrei mai pensato di firmare un giorno la tessera alla memoria di un maestro come Bruno Zevi” ha concluso Antonio Montani. “Ora dobbiamo cercare tra i nostri soci di tanti anni fa chi si è rifiutato di firmare quei provvedimenti, e onorare la sua memoria”.

L’intervento più ricco, sul versante del CAI, è stato quello di Livia Steve, socia della Sezione di Roma, animatrice di Alpinismo giovanile e motore della serata del 25 gennaio. Livia, negli ultimi mesi, ha continuato il lavoro di Grassi, e ha dato un nome e un volto a molti degli “epurati” dall’allora CAI dell’Urbe. Un lavoro difficile, perché molti soci ebrei si erano allontanati prima di essere messi alla porta.

“Nella seconda metà degli anni Trenta la Sezione di Roma ha avuto circa 200 soci ebrei, gli espulsi sono stati un centinaio, più una cinquantina di giovani, studenti e universitari, che all’epoca erano soci aggregati” ha spiegato Livia Steve.

“Molte famiglie, dagli Ascarelli ai Modigliani e ai Morpurgo hanno avuto più soci epurati, la famiglia Ajò addirittura dieci. Tra gli epurati era Carlo Franchetti, che ha ospitato la Sezione di Roma nel suo palazzo di Via Gregoriana, e al quale è dedicato un amatissimo rifugio del Gran Sasso. Dei tre Piperno epurati nel 1939 dal Club Alpino, due sono morti ad Auschwitz e uno alle Fosse Ardeatine” ha ricordato ancora Livia.

Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha iniziato rivolgendo un “immenso grazie per questa ricerca”, si è concessa una battuta su “Mosè sul Sinai, il primo scalatore della storia”, poi ha ricordato lo straordinario contributo ebraico alla società italiana. Dentro e fuori dal CAI, ha ricordato Di Segni, “è giusto pensare non a cosa hanno perso gli ebrei con le leggi razziali, ma a cosa ha perso l’Italia.

E’ toccato a chi scrive il compito di ricordare il problema della ferrata Brizio del Gran Sasso, realizzata per iniziativa del presidente della Sezione dell’Urbe che ha firmato i provvedimenti di epurazione nel 1939. Nel dopoguerra, quando la ferrata è stata costruita, Guido Brizio non dirigeva più la Sezione ma il Comitato Centro Meridionale e Insulare del CAI, ma il suo nome è rimasto.

Lorenzo Grassi, un anno fa, ha proposto di ribattezzare la ferrata, e di dedicarla ad Agnese Ajò e a suo marito Enrico Iannetta, il migliore alpinista romano degli anni Venti e Trenta del Novecento. Nelle settimane seguenti, alcuni interventi pubblicati sulla pagina Facebook del Club 2000, molto seguita dagli escursionisti, hanno difeso a spada tratta Brizio paragonandolo a un “Aiace tra i dardi”, a un eroe del mondo antico.

Ieri la presidente Noemi Di Segni ha chiesto al Club Alpino Italiano di cambiare nome a quella ferrata del Gran Sasso. “Noi della Comunità Ebraica, da molti anni, chiediamo di cambiare nome alle scuole e alle strade intitolate a chi ha obbedito agli ordini del regime, e non ha saputo dire no”.

Ora la palla è nel campo del CAI di Roma che ha costruito la ferrata, del CAI di Teramo al quale è stata ceduta qualche anno fa, del CAI nazionale e del gruppo di lavoro che segue la questione dei soci espulsi. E’ giusto che dicano la loro tutti gli innamorati del Gran Sasso, è giusto che si esprima il Parco Nazionale che sei anni fa ha rinnovato la ferrata a sue spese. Ieri Noemi Di Segni ha anche invitato a “evitare la contrapposizione tra nomi”. Forse la soluzione potrebbe essere la Ferrata della Memoria.

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