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“Noi geologi e la tecnologia contro le frane”. Intervista ad Andrea Tamburini

L’Italia continua a franare. Secondo l’inventario pubblicato nel 2021 dall’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, le 625.000 frane italiane interessano il 7,9% del territorio nazionale, nel 28% dei casi con “velocità elevate” ed “elevata distruttività”. La tragedia di Casamicciola, a Ischia, con 12 morti e centinaia di case evacuate, ha riportato questa realtà in primo piano. Crolli e frane interessano anche le Alpi, dove il cambiamento climatico rende vette e pareti più fragili.

Ne parliamo con il geologo Andrea Tamburini, esperto nella prevenzione e nella gestione del rischio idrogeologico, che ha collaborato con la Protezione Civile e ha partecipato a spedizioni scientifiche in Himalaya, nel Karakorum e nelle Ande. Tamburini ha insegnato all’Università di Trieste. Oggi lavora in una società privata, la IMAGEO, e insegna Geologia Ambientale nella sede di Edolo, in Val Camonica, dell’Università della Montagna di Milano. “E’ anche un contributo per mantenere viva la valle” spiega.

Nella scorsa estate le televisioni e i giornali si sono spesso occupati di crolli di roccia e ghiaccio ad alta quota, dalla Marmolada al Monte Bianco. Stiamo assistendo a un aumento delle frane? Cosa succede sulle Alpi, dove gli effetti del cambiamento climatico e della riduzione del permafrost sono più forti?

La quota dei punti di distacco delle frane si sta alzando, e la colpa è del cambiamento climatico. Dopo il 2000 c’è stata un’accelerazione che noi geologi non ci aspettavamo. Nel 2003 sono crollate la Cheminée del Cervino e la ferrata del rifugio Marco e Rosa al Bernina, nel 2004 una enorme frana è caduta dalla Punta Thurwieser, sull’Ortles. Nel 2007 una “valanga di roccia” si è staccata dalla parete Est del Monte Rosa, tra 4000 e 4200 metri di quota. 

Alcuni luoghi che lei ha citato sono frequentati dagli alpinisti. Si può fare qualcosa per evitare pericoli? Sarà necessario vietare gli itinerari più esposti?

Si può prevenire, si può intervenire per consolidare, si può informare, ma chi sceglie di praticare l’alpinismo sa che si espone a dei rischi. La vera sfida riguarda le strade, le ferrovie, i centri abitati. Qui la sicurezza dev’essere garantita quanto più possibile.

Quanto vi aiutano le nuove tecnologie nella prevenzione dei movimenti franosi? Si può capire se un versante può franare o no?

Il progresso tecnologico c’è, ed è fondamentale. Nel 1987, quando avevo iniziato da poco a lavorare, mi sono occupato della frana della Val Pola, in Valtellina. Siamo stati i primi in Europa a usare un sistema di monitoraggio automatizzato, abbiamo avuto visitatori da tutto il mondo.

Dalla frana della Val Pola sono passati 35 anni. Cosa è cambiato da allora per quanto riguarda la tecnologia?

I sistemi di Early Warning possono contare su nuove tecnologie che consentono di “vedere” a distanza i movimenti di una frana, e sono sempre più leggeri ed efficaci. Anche se vengono installati in zone remote, la trasmissione dei loro dati in tempo reale non è più un problema. Oggi la copertura telefonica è buona quasi ovunque e permette di farlo. In passato non era così.   

E’ possibile oggi, studiando un versante o una parete rocciosa, capire dov’è più facile che si stacchi una frana? 

Mi occupo da anni di geomatica. Con i miei colleghi, usando il laser scanner, realizzo scansioni delle pareti rocciose alla ricerca dei punti potenzialmente instabili. Riusciamo a capire il grado di fratturazione, e a valutare la qualità dell’ammasso roccioso a distanza, limitando al minimo indispensabile l’accesso diretto alla parete.

In che zone ha lavorato in questo modo?

Il governo del Kirghizistan ci ha affidato la mappatura della pericolosità da frana in tutto il territorio, e in particolare nelle regioni di Osh e di Jalalabad, le più esposte. E’ stata una bella esperienza, in un paese molto più avanzato di quel che mi immaginassi.

E in Italia?

Abbiamo lavorato per stimare il rischio di frane lungo 500 chilometri di linee ferroviarie in Toscana, Lazio, Liguria ed Emilia. Abbiamo fatto lo stesso per 300 chilometri della A14 Adriatica e per un oleodotto nel Mezzogiorno. Valutiamo la pericolosità da frana per ogni tratto di queste infrastrutture. Lo scopo è di individuare le zone più esposte, dove bisogna intervenire.

Lei si è occupato per anni della frana del Mont de la Saxe, nei pressi di Courmayeur. Un crollo di grandi dimensioni potrebbe investire La Palud, Entrèves e l’autostrada del Traforo,

La frana del Mont de la Saxe è nota da tempo ai geologi, ma per decenni si è mossa di qualche millimetro o di qualche centimetro all’anno. Poi c’è stata una brusca accelerazione, soprattutto in un settore. Ora la situazione è di nuovo tranquilla. Me ne sono occupato fino a 6 o 7 anni fa.

Cosa avete capito della frana della Saxe? E cos’è stato fatto per tenerla d’occhio e frenarla?

L’accelerazione della frana è stata causata dalle infiltrazioni d’acqua, soprattutto durante il disgelo. Dal 2008 funziona un Early Warning System che controlla il movimento della frana. Alla base è stato costruito un vallo (un “rilevato” per i tecnici), in grado di contenere i crolli più superficiali. Per rallentare il movimento della frana sono stati effettuati dei test di drenaggio dell’acqua, che hanno dato risultati incoraggianti. Nei prossimi anni verrà scavato un tunnel che dovrebbe risolvere il problema.

Tra le conseguenze del cambiamento climatico c’è l’aumento dei laghi di scioglimento che si formano sui ghiacciai, e che, in caso di crollo, possono causare inondazioni. Gli anglosassoni parlano di GLOF, Glacial Lake Outburst Floods. Lei si è occupato del lago effimero del Belvedere, ai piedi del Monte Rosa.

L’allarme è stato dato nel 2002, vent’anni fa. Si temeva che la tracimazione del lago potesse far partire un’ondata di piena verso Macugnaga. Il livello del lago è stato inizialmente abbassato con delle pompe, nell’estate 2003 il lago si è svuotato naturalmente senza dare luogo ad eventi parossistici. Ora non ci sono preoccupazioni.

Non lontano da quello del Belvedere c’è il Lago delle Locce. E lì un’ondata di piena c’è stata.

Nel 1979, a causa di un fenomeno di sifonamento, un’ondata d’acqua e detriti è scesa a valle distruggendo la seggiovia dell’Alpe Burki. Da allora il lago viene monitorato, ed è stato scavato un canale per mantenere il livello dell’acqua al di sotto della soglia critica.

C’è pericolo di cedimenti intorno al Lago del Miage, ai piedi del versante italiano del Monte Bianco? Più in basso ci sono la Val Vény e Courmayeur…

Il Lago del Miage si svuota e si riforma periodicamente, non ci sono mai state inondazioni che hanno interessato il fondovalle. Qualche anni fa una parete di ghiaccio è crollata nel lago, c’è stata un’ondata di piena, alcuni escursionisti sono stati trascinati in acqua, ma non ci sono stati danni gravi.

Lei si è occupato anche del lago effimero del Rocciamelone, che si è formato una ventina di anni fa in territorio francese, nei pressi della cima.

Sì, e anche lì la situazione è sotto controllo. Abbiamo studiato il lago insieme ai francesi, poi loro hanno scavato un canale per far defluire l’acqua, e il pericolo è scomparso.

Il lago effimero non potrebbe riformarsi?

Attualmente, a causa della fusione e dell’abbassamento di livello del ghiacciaio, non ci sono più le condizioni morfologiche per la formazione di un lago. Il cambiamento climatico in questo caso ha risolto il problema.

Torniamo in Valle d’Aosta, in Valgrisenche, dov’è stata abbassata di una cinquantina di metri la diga del lago artificiale di Beauregard. Perché è stato fatto? C’era pericolo per residenti e turisti?

Il pericolo non è mai stato concreto, perché l’invaso non è mai stato riempito. La diga è stata inaugurata nel 1954, e poco dopo ci si è accorti che il versante sulla sinistra orografica, sotto all’abitato di Bonne, aveva iniziato a cedere. Nel frattempo si è verificata la catastrofe del Vajont nel 1963, per tale ragione si è deciso di non riempire mai l’invaso. L’ultimo intervento, nel 2011, ha portato all’abbassamento della diga.

Com’è potuto accadere? Secondo lei i progettisti hanno fatto un errore che avrebbe potuto causare una strage?

Il versante sinistro della valle è interessato da un enorme fenomeno gravitativo che attualmente classifichiamo come “Deformazione Gravitativa Profonda di Versante”. Si tratta di una conseguenza della decompressione causata dal ritiro dei ghiacciai del Quaternario, molte migliaia di anni fa, e sono diffusi su tutto l’arco alpino. Un fenomeno che oggi conosciamo, ma che negli anni Cinquanta non era ancora stato descritto. Non parlerei di un errore umano.

In Italia si parla del dissesto idrogeologico solo dopo che una frana ha causato danni e vittime. Ma si fa abbastanza per prevenire questi fenomeni? Come siamo messi rispetto al resto d’Europa?

L’attenzione in Italia è aumentata, ma non vengono dedicate risorse economiche sufficienti per pianificare davvero la gestione del territorio.

Mi può indicare una cosa concreta da fare secondo voi geologi?

Tre mesi fa, durante una giornata di lavoro internazionale su tecnologie innovative di monitoraggio dei versanti instabili, si è parlato di condividere, per ogni zona, le indagini già fatte in passato, senza costringere i progettisti a ripartire da zero. In Austria se ne discute concretamente e c’è un progetto di legge in proposito. Creare un archivio del sottosuolo, accessibile a tutti i professionisti, aiuterebbe a progettare prima e meglio.

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