Meridiani Montagne

Il respiro dell’Everest, la storia di Marion Chaygneaud-Dupuy

In tempi di alpinismo competitivo, quando cronometro, sponsor e visualizzazioni sembrano padroni assoluti del campo, la storia di Marion Chaygneaud-Dupuy ci investe come una ventata di ossigeno. Due sono le cose che di lei si ricorderanno nella grande storia dell’alpinismo: l’essere stata la prima donna europea a scalare per tre volte l’Everest, e l’aver inventato l’operazione Clean Everest, che a partire dal 2016 ha contribuito a liberare da diverse tonnellate di spazzatura il campo base e i campi avanzati del versante tibetano del Tetto del Mondo. Un modello d’ecologia d’alta quota condiviso con le spedizioni internazionali, i pastori locali e infine lo stesso governo cinese. Ma la vita e il pensiero di Marion sono ben più complessi, e insieme più semplici. E si possono riassumere in una parola tibetana: semchuk, cioè “sforzo gioioso”.

La storia, che oggi possiamo leggere nell’autobiografia “Il respiro dell’Everest”, appena tradotta da MonteRosa Edizioni, con una prefazione di Linda Cottino, comincia tra i boschi del Périgord, dove la famiglia Chaygneaud-Dupuy si è trasferita per vivere una vita a stretto contatto con la natura: i genitori conducono una fattoria biologica immersa in un’atmosfera neo-hippy, i figli trascorrono il tempo nei boschi e vanno a scuola di circo. In casa è appesa una massima di Lao Tse: “Il silenzio e l’inazione. Pochi uomini riescono a comprendere la loro efficacia”. Nel 1996, quando ha 16 anni, Marion parte per Calcutta con una amica, per lavorare nelle cliniche mobili delle bidonville. Due anni dopo è ancora in India: sei mesi in un lebbrosario, da cui appena può si sposta per incontrare i suoi primi maestri di spiritualità, il Dalai Lama, Bokar Rinpoche, Amma, la “santa degli abbracci”. La strada della ragazzina francese è ormai tracciata: diventa monaca buddista e per quattro anni si dedica anima e corpo al silenzio e alla meditazione. Quando poi anche questa esperienza ha termine, Marion riparte con i suoi voti e “il gioiello più prezioso, il desiderio di liberare gli esseri viventi dalle sofferenze e di mantenere il cuore aperto”.

Dal 2002 si trasferisce in Tibet, studentessa all’università di Lhasa. La capitale diventa la base per una vita nuova e intensa, prima nel volontariato a favore dei popoli nomadi; poi tra le mandrie di yak selvatici e le grotte degli eremiti, alla scoperta dell’immenso altopiano del Changtang, a 4500 metri. Il “terzo polo” del mondo. Per mantenersi, la monaca francese guida i gruppi di trekking, esplora nuove rotte, impara l’uso dei ramponi e inizia a salire i facili 6000. Lavora nelle Ong ma segue anche i corsi della neonata associazione di guide alpine tibetane. Nel 2012 è pronta per il suo primo Ottomila, ma l’ascensione del Manaslu si trasforma in un appuntamento mancato con la morte: una valanga travolge il campo 3 e uccide undici alpinisti; Marion, ferma al campo 2, ne viene solo sfiorata.

Un periodo di lutto e di riadattamento però la portano a qualcosa di ancora più grande: All’alba del 19 maggio 2013 raggiunsi la vetta dell’Everest… Solo l’otto per cento degli alpinisti che scalano la montagna sono donne. Eppure la montagna che noi abbiamo battezzato Everest, in realtà si chiama Chomolungma, in tibetano ‘dea madre elefante’”. E subito la monaca buddista mette in chiaro che “l’impresa sportiva non mi interessava. La spedizione, per me, era un modo per contemplare i legami tra l’essere umano e la natura. Essere sulla montagna, in sintonia con essa, equivale a un ritiro spirituale”. Dopo questa prima salita, Marion tocca altre due volte la cima per la cresta nordest, l’ultima il 2017. E intanto matura il progetto Clean Everest, “la palestra dove temprare la determinazione, e la scuola che mi ha insegnato la via del cuore”. È l’apice del suo “sforzo gioioso”.

Oggi Marion Chaygneaud-Dupuy detta Dolma è tornata a vivere in Occidente. La via del cuore le ha permesso di abbandonare ogni desiderio, ogni vanità nascosta, ogni rigidità e perfino i voti di celibato (“Ho incontrato un uomo” si intitola uno degli ultimi paragrafi). Ha compreso, forse, la vera essenza del buddismo, la sospensione di ogni giudizio. Viene (tanta) voglia, alla fine di questa lettura, di imitarla, abbandonare gli orpelli del vivere contemporaneo, scalare l’Everest o anche non scalarlo, perché qual è la differenza? E ognuno per la sua personale via di crescita, fare il nostro ingresso nel più luminoso dei mondi: “Se la luce avesse una forma, sarebbe la gioia. / Se emettesse un suon, sarebbe una risata. /Se la luce fosse un dono, saresti tu”.

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