Meridiani Montagne

La montagna dell’anima

Testo di Enrico Camanni, tratto dal numero di Meridiani Montagne “Monviso, Valle Varaita e Valle Po”

Se sulle Alpi esistesse una montagna sacra come quelle dell’Himalaya, quella cima sarebbe il Monviso. Ha tutto ciò che serve per essere ammirato e venerato da chi vive ai suoi piedi, a cominciare dalla forma geometrica. Il disegno erosivo ha voluto che per sottrazione di pietra, in questo preciso momento geologico, il Monviso rappresenti la cima di Cartesio, silhouette da sognare, archetipo di ogni montagna. Se osservato da Torino o dalla Serra di Ivrea, si presenta come un triangolo isoscele dalle forme regolari e simmetriche, striato dalla neve fino all’inizio dell’estate, grigio in autunno, imponente sempre, con le creste est e ovest che convergono a freccia verso il vertice della piramide. C’è chi sostiene che ci sia il Monviso sul famoso logo della Paramount.

Naturalmente la forma non basta a farne una cima eccezionale: bisogna aggiungerci l’isolamento e la visibilità. Il Monviso è come un sovrano unico e indiscusso nell’interminabile arco di Alpi che va dalle Liguri alle Graie. Nemmeno la vela bianca del Rocciamelone riesce a incrinarne la supremazia, perché contornata da cime che si fanno via via più alte e uniformi. Invece, i cinquecento metri di dislivello che separano il Monviso dal vicino Visolotto, montagna esteticamente notevole e alpinisticamente più difficile del suo “superiore”, diventano una distanza incolmabile sul piano della prospettiva, perché il Visolotto è allineato con la restante cresta di confine, mentre lui, il Re di Pietra, svetta da ogni prospettiva avvicinando il tetto dei 4000 metri.

Anche il Cervino è isolato, si può obiettare, e quanto a forma e dimensioni, che cosa si potrebbe mai pretendere più del Cervino? Però lui non si vede dalla pianura. Solo il Monviso è perfettamente visibile da ogni campagna, paese e città, è sempre lì sospeso dall’alba al tramonto, i contadini sanno di averlo sulla testa mentre lavorano la terra e gli operai lo vedono indorarsi quando vanno al primo turno in fabbrica, come una lampada che illumini la loro fatica.

Dove nasce il più lungo fiume d’Italia

E poi c’è il Po che nasce alle falde del Monviso, precisamente al Pian del Re. Dante, dedicando un rapido cenno alla montagna nell’Inferno della sua Commedia, si sofferma sulla paternità: “Come quel fiume ch’ha proprio cammino prima da monte Veso inver levante dalla sinistra costa d’Appennino”. Dal grande sasso sgorgano le acque del grande fiume che irriga le pianure e disseta le città. Dalla roccia nasce la vita, consegnando al monte durezza di padre e benevolenza di madre. Il Viso non è la montagna matrigna e crudele che sbarra l’orizzonte, è più la montagna madre che protegge e dà speranza, interpretazione nostrana dei miti orientali che attribuiscono alle nevi dell’Himalaya l’origine della fertilità.

Si può dunque parlare di montagna sacra? Con dovuta prudenza, perché la sacralità delle cime alpine è un problema delicato: sacri sono gli eremi, i santuari, speciali “monti” come Orta o Varallo, i luoghi insanguinati delle Dolomiti, forse perfino i colli resi tali dal sudore degli uomini; ma le cime non furono sacre per i montanari, che nell’antichità le ignoravano, e lo diventarono solo successivamente per i seguaci della fede cattolica, quando le si identificò con dei luoghi di culto: per esempio il Rocciamelone, ancora lui, salito nel 1358 dal crociato Roero d’Asti per onorare un voto alla Madonna. Dunque, è delicato parlarne, ma se ci fosse una montagna sacra sull’arco alpino quella cima si chiamerebbe Monviso, o semplicemente Viso.

La lunga strada per la vetta

I cittadini europei, più che onorare le Alpi innevate e fantastiche, a partire dall’Ottocento si preoccupano di scalarle. Scorrendo la storia dell’alpinismo si scopre che il primo a sfiorare la cima del Monviso fu un saluzzese, certo Domenico Ansaldi, che nel 1834 giunse a centocinquanta metri dalla vetta. Se Ansaldi fosse riuscito nell’impresa, il Re di Pietra avrebbe avuto un destino diverso. Invece entrano in scena gli alpinisti d’oltre Manica: prima i britannici Forbes, Ball, Whymper, Mathews e Jacomb con le guide francesi sul versante sud, poi il reverendo americano Coolidge con le guide svizzere sulla parete nord. In mezzo, naturalmente, ci sono Quintino Sella e i suoi amici di scienza e politica, che nel 1863, dopo che la montagna è stata espropriata, capiscono l’urgenza del riscatto italiano e hanno successo: sul Monviso prende forza il progetto del Club alpino italiano.

Ritorniamo alla prima ascensione. Nel 1861 la piramide delle Alpi Cozie viene scalata senza troppe difficoltà da Frederick William Jacomb e William Mathews con le guide Jean-Baptiste e Michel Croz, di Chamonix. Il triangolo del Monviso non poteva passare inosservato a quegli instancabili cacciatori di cime che erano gli inglesi dell’Ottocento, i quali, mentre godevano della vittoria, di sicuro si domandavano perché i montanari locali non ci avessero pensato prima. Nel 1863 la tipografia saluzzese dei Fratelli Lobetti-Bodoni rende omaggio al pioniere londinese Mathews, traducendo con linguaggio aulico, ma dettagliato, il suo racconto Salita a Monte Viso:

“[…] sebbene eccessivamente erta, la salita non riesciva gran fatto difficile imperocchè gli sporti e gli angoli delle roccie, sui quali ci aggrappavamo mani e piedi, ci prestavano abbastanza sicuro appoggio ed erano interamente privi di ghiaccio […] Contro un solo pericolo dovevamo stare in guardia ad ogni passo: massi distaccati d’ogni forma e dimensione pendevano lungo le gole o giacenti su mobili piedestalli o appoggiati mal fermi al pendio della roccia. Tenendoci stretti in fila scomponevamo il meno possibile questi frammenti e nondimeno masse di più quintali di peso venivano tratto tratto spostate sulla fronte e scendevano fischiando a spaventosa prossimità della testa di quelli che salivano in coda”.

Logicamente i primi salgono dal lato sud, dove il Monviso si mostra più dolce e arrendevole; partono dalla frazione Castello di Pontechianale, in Valle Varaita, e percorrono il Vallone di Vallanta, la porta d’accesso al pietroso versante meridionale. Ma la vera sfida era e resta il ben più impressionante versante settentrionale, il “Viso della Valle Po” per dirla nel gergo locale. La gelida e altissima parete nord attrae e spaventa gli alpinisti di fine Ottocento, che ancora non dispongono di ramponi, eppure nel luglio del 1881 viene scalata dal reverendo americano William Augustus Breevort Coolidge con le guide svizzere Almer, padre e figlio. Un’impresa eccezionale, pionieristica e d’avanguardia allo stesso tempo.

“In un canalino” scrive Coolidge, “prima di un ultimo angolo da aggirare per verificare quale sarebbe stato il nostro destino, Almer insisté perché ci fermassimo a riposare in preparazione di qualche terribile mauvais pas. Accettai con una certa indignazione, dal momento che ora eravamo così vicini al ghiacciaio che sembrava illogico fermarsi prima che l’incognita fosse risolta; ma la lunga esperienza mi aveva insegnato che era meglio agire secondo quanto raccomandava Almer, senza ulteriori indagini. Ripartimmo poi nuovamente, addentrandoci nella grande parete scorgendo un piccolo canale tra due speroni. Salimmo ancora. Girato un altro angolo, ecco un grido del nostro capo-comitiva annunciare la vittoria. Alle 9,15 ci fermavamo trionfanti sul ghiacciaio”. Il ghiacciaio che tanto impensierisce Coolidge è una specie di lenzuolo incastonato a diadema nel cuore della parete. È come un’isola nella vertigine, un’oasi, un piccolo porto per l’alpinista. O almeno lo era fino al 6 luglio 1989, cent’anni e mille ascensioni dopo l’impresa degli Almer e di Coolidge.

6 luglio 1989 il nuovo volto del Viso

In quel giorno di metà luglio 1989, Marc Albaladejo e Linda Mons, due giovani alpinisti del Club alpino monegasco, lasciano il Principato in mattinata e raggiungono il Pian del Re in auto a metà pomeriggio; le previsioni del tempo sono favorevoli e il vento del nord ispira buoni presagi. I francesi salgono alla minuscola semibotte del bivacco Villata, che dal 1958 offre un ricovero agli alpinisti impegnati sulla parete nord. Dopo avere cenato e preparato gli zaini, consultano l’altimetro notando che la pressione stava diminuendo a dispetto delle previsioni. Un leggero vento da sudovest nasconde il cielo e fa anche molto caldo. Vanno a dormire un po’ meno fiduciosi, confidando nella notte e nella fortuna. Dopo qualche minuto, si scatena l’Apocalisse: “Improvvisamente sussultiamo nel dormiveglia, destati da un possente e sordo rimbombo che rapidamente si intensifica fino a diventare un boato terrificante che si avvicina a velocità vertiginosa. Il couloir nord sta franando con un baccano allucinante. Atterriti, nelle cuccette, con gli occhi sbarrati nell’oscurità, ci aggrappiamo alle nostre povere coperte. Al passaggio di quello che a noi sembra essere il fronte della valanga, il bivacco si mette a vibrare violentemente e subito si sentono i primi colpi delle pietre che colpiscono con forza il nostro ricovero provocando degli squarci dove entra dell’acqua; pare che tutto debba disintegrarsi.

Alle 6 del mattino, dopo una notte d’angoscia con i caschi in testa a orecchiare le scariche, i due possono finalmente abbandonare il bivacco: “Appena usciti all’esterno, stupefatti, valutiamo attraverso la cortina di nebbia l’ampiezza della valanga. I bordi del canale non esistono più; resta solo una lunga striscia di ghiaccio bianco incisa al centro da un solco profondo, dove corre un vero torrente d’acqua. La valanga si apre su un triangolo di un chilometro di base per un chilometro e mezzo di altezza. Il Lago Chiaretto, seicento metri più in basso, è interamente coperto”. Con il crollo erano scomparsi circa duecentomila metri cubi di ghiaccio e buona parte del ghiacciaio pensile, urlando agli amanti del Monviso che il clima cominciava a cambiare, anzi era già cambiato, e che l’oggetto del loro amore diventava più che mai un Re di Pietra, solo roccia. Addio agli ultimi ghiacciai.

Altri approfondimenti sul numero 118 di Meridiani Montagne “Monviso, Valle Varaita e Valle Po”.

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