Meridiani Montagne

Cimon della Pala, il Cervino delle Dolomiti

Testo di Alessandro Gogna, tratto dal numero di Meridiani Montagne “Pale di San Martino e Primiero”

È il 3 giugno 1870 quando l’inglese Edward Robson Whitwell, dopo il primo tentativo di due giorni prima, riesce a salire i 3184 metri del Cimon della Pala. Ad accompagnarlo, le guide Santo Siorpaes e Christian Lauener, di Lauterbrunnen. La cordata sale per il Ghiacciaio di Travignolo, dopo un bivacco all’addiaccio, lungo una via oggi del tutto abbandonata. A quei tempi la roccia era considerata ostile, faceva paura. Il ghiaccio, invece, sebbene temuto elemento, si poteva aggredire a vigorosi colpi di piccozza e gli scarponi, muniti di graffe, davano un appoggio sufficiente.

Whitwell arriva dall’Inghilterra senza alcuna esperienza dolomitica, ma con la fiducia “che, con il bel tempo, saremmo stati abbastanza fortunati da metterci in tasca almeno una delle due cime, opinione fondata, temo, principalmente su quella sorta di gradevole presunzione che è la figlia dell’ignoranza totale, sebbene mi confortasse la riflessione che quasi tutte le cime difficili erano state dichiarate inaccessibili finché non era stato dimostrato il contrario”. Whitwell si esprime quasi alla Mummery, e il suo metodo è un po’ il “veni, vidi, vici”. All’inizio della Valle del Travignolo, ha però un momento di lirismo: “Non dovemmo attendere a lungo prima che la nebbia si alzasse per un momento, rivelando uno dei più magnifici effetti scenici cui abbia mai assistito. Era visibile soltanto la parte più alta della montagna, sfiorata appena dalla gloria del sole al tramonto e circondata da un alone di nebbia che le donava l’aspetto più splendidamente impossibile che si possa immaginare, mentre l’enorme guglia, troppo ripida perché sui suoi fianchi potesse trovare appiglio un fiocco di neve, torreggiava sopra di noi gloriandosi del suo aspetto di assoluta inaccessibilità e con l’aria di beffarsi di qualsiasi tentativo umano di raggiungerne la cima”.

Prime grandi imprese con le scarpe de gato

Il 26 luglio 1893, Antonio Dimai guida Leon Treptow sulla parete sud del Cimon della Pala, una via pericolosissima per la roccia friabile: 550 metri di III e IV grado. Treptow racconta che Dimai in qualche punto tirasse su con la corda il proprio zaino, che conteneva gli scarponi ferrati, la piccozza e i viveri. E questo è tanto vero che il sacco a un certo punto precipita, lasciando i due senza provviste e senza equipaggiamento pesante. Ma proseguono ugualmente.

John Swinnerton Phillimore e Arthur Guy Sandars Raynor, che in seguito vinceranno con Dimai la parete nordovest della Piccola Civetta, riportano che Dimai abbia giudicato la sua via sulla Sud del Cimon della Pala ancora più difficile del Civetta! Qualche giorno dopo, l’11 agosto 1893, la guida Giuseppe Zecchini e il cliente Gilberto Melzi partono alle quattro del mattino da San Martino di Castrozza, diretti alla parete ovest della Rosetta. Melzi racconta: “Ispirato da non so quale bellicoso sentimento, [Zecchini] mi offriva, fra il serio e lo scherzo, di scambiare la progettata salita con un tentativo di ascensione al Cimon della Pala per la cresta nord-ovest. La proposta era troppo attraente per poter essere rifiutata e, rammentandomi che molto spesso le sorprese meno preparate e più rapidamente decise sono quelle che la sorte si compiace di proteggere, accettai e, senz’altro volgemmo i nostri passi alla nuova meta”. Di certo, la cresta nordovest è il pilastro che più caratterizza lo slancio estetico di questa montagna. “Sulla forcella ci fermammo per circa 20 minuti a prendere un po’ di cibo; poi, sostituiti gli scarponi ferrati coi peduli – le scarpe de gato, come le chiamano a San Martino – e legatici alla corda, incominciammo l’arrampicata”. I due s’innalzano velocemente, giungendo poi al risalto più verticale. “La verticalità dei versanti è tale che le sottostanti pareti sfuggono all’occhio e si ha l’impressione di camminare o, meglio, di strisciare sopra una gigantesca corda sospesa nel vuoto”. Dato il cielo assai minaccioso, i due, in vetta, non perdono tempo: alle 16.30 sono già di ritorno a San Martino di Castrozza. La via, subito battezzata via Melzi-Zecchini, non tarda a diventare classica, meritatamente.

Parete sudovest: l’impresa del dottore tedesco

Nel 1905 un altro grande problema attende soluzione: la parete sudovest del Cimon della Pala. Vi era stato un tentativo assai notevole delle tre guide Giuseppe Zecchini, Antonio Tavernaro e Bortolo Zagonel, con Arturo Crescini, il 29 settembre 1892. I quattro erano giunti quasi alla sommità del gran pilastro centrale, ma furono costretti a scendere a causa della pioggia. La parete rimase tranquilla per altri 13 anni, il che, in quell’epoca non certo pionieristica, è veramente molto tempo. Forse la vittoria di Dimai e Treptow sulla vicina parete sud aveva tolto un po’ dell’interesse, forse erano le difficoltà a scoraggiare, fatto sta che, sulla bella parete sovrastante San Martino di Castrozza, alta 550 metri, nessuno aveva più posto piede. Fino all’11 agosto 1905, quando il dottor Georg Leuchs, di Monaco, s’incammina di notte, da solo, dal paese. Alle prime luci inizia la scalata e alle tre del pomeriggio tocca la vetta. La sua breve, ma chiarissima relazione, finisce con queste parole: “Quest’ascensione, tanto come scalata di camini e di pareti, che per numero di passi difficilissimi, nonché per la sua esposizione, può essere annoverata fra le più ardue arrampicate dolomitiche”. Lo stesso giudizio lo dà Ettore Castiglioni nella sua guida Pale di San Martino: “risolse uno dei più importanti problemi delle Dolomiti del suo tempo”. Oggi la via è classificata di IV+. E ad aprire l’itinerario fu un uomo da solo.

Dopo di lui vengono ancora Hans Dülfer e Paul Preuss, che sanno aprire delle vie in solitaria e in libera, a volte senza corda. Dopo questi grandi verrà l’era del sesto grado e non ci sarà più spazio per i solitari: sulle estreme difficoltà non si può fare una via nuova da soli! Solo nel secondo dopoguerra, con la tecnica dell’auto-assicurazione, sarà di nuovo possibile.

Il limite tra alpinismo e sport

Georg Leuchs è insomma l’anello di passaggio tra Tita Piaz e Dülfer, tra Piaz e Preuss. Anch’egli arrampica da solo senza l’uso dei mezzi artificiali, e per primo trova un itinerario che è la reale espressione del IV+.

Tutte distinzioni, queste, che si possono fare solo oggi. Allora non esistevano i gradi, si procedeva empiricamente per paragoni. In compenso, si stava già molto attenti, nelle valutazioni, al “come” una via era effettuata, se in libera, se con i chiodi. L’essere soli era di certo il metodo più genuino per garantire una completa arrampicata libera.

Mentre nulla sappiamo sulle motivazioni reali che spingono Leuchs ad attaccare la parete da solo, si sa invece che a una famosa riunione della sezione Bayerland a Monaco, il 31 gennaio 1912, presenti i maggiori esponenti dell’alpinismo dolomitico, Leuchs sostiene in linea generale i principi enunciati da Preuss, ma fa osservare che anche altri come Piaz e Franz Nieberl sono d’accordo: dove le opinioni divergono è semplicemente sul numero di chiodi concessi (Piaz 30, Nieberl 3, Preuss nessuno). Leuchs dice che ciascun alpinista sa dove è il limite tra alpinismo e sport, ma che se non si stabiliscono regole non potrà mai esserci un reale progresso. Ma nessuno poté mai (per fortuna) stabilire delle norme precise.

Le discussioni accademiche sono state spazzate via dagli itinerari aperti in seguito sulla parete sudovest del Cimon della Pala, che testimoniano l’evoluzione delle tecniche alpinistiche.

Altri approfondimenti sul numero 117 di Meridiani Montagne “Pale di San Martino e Primiero” .

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