Ambiente

Inquinamento senza confini: nanoplastiche rilevate in Antartide e Groenlandia

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi rivolti al rilevamento in ambienti estremi di inquinanti plastici, nello specifico delle ormai ben note microplastiche. Frammenti di dimensioni comprese tra 1 μm e 5 mm, derivanti dalla disgregazione di rifiuti plastici di dimensioni maggiori, trasportati a distanza di centinaia e centinaia di chilometri dalla fonte primaria di inquinamento per via aerea, o attraverso le acque fluviali fino agli oceani. Questi minuscoli frammenti sappiamo bene che ormai siano essenzialmente ovunque. Cadono assieme alla neve sulle catene montuose più alte del Pianeta e negli angoli più remoti, da un Polo all’altro. Accanto alle microplastiche esiste un’altra categoria di inquinanti, di dimensioni ancora inferiori: le nanoplastiche.

Parliamo di particelle che mai potremmo vedere a occhio nudo, al di sotto del micron. Invisibili a occhio nudo e difficili da rilevare mediante i protocolli elaborati per i rilevamenti delle microplastiche, pertanto molto meno note alla scienza delle parenti “più grandi”. In particolare un gap di conoscenze si identifica nel campo della circolazione di tali particelle. Dove sono in grado di arrivare? Come si muovono? Uno studio di recente pubblicazione sulla rivista Environmental Research va a colmare in parte tale lacuna, fornendo una risposta decisamente allarmante: le nanoplastiche sono in grado di raggiungere le aree più estreme del Pianeta.

Mediante l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia – un metodo innovativo basato su “desorbimento termico – reazione di trasferimento protonico – spettrometria di massa” (TD-PTR-MS) – un team di ricercatori danesi, olandesi e belgi è stato in grado di rilevarne la presenza in campioni di ghiaccio prelevati in Groenlandia e Antartide.

“Chi sono” le nanoparticelle dei Poli?

Come si legge nel paper, nel campione di ghiaccio, meglio dire di firn, prelevato in Groenlandia è stata identificata la presenza di  polietilene (PE), polipropilene (PP), polietilene tereftalato (PET), polistirene (PS), polivinilcloruro (PVC) e nanoparticelle derivanti dall’usura degli pneumatici. Nel ghiaccio marino antartico PE, PP e PET. La media di concentrazione è risultata essere pari a 13, 2 ng/mL per la Groenlandia e 52,3 ng/mL per l’Antartide.

Ma da dove arriva questa plastica?

In riferimento alla Groenlandia, la componente plastica maggiormente rappresentata nel campione di firn analizzato è risultata essere il PE, contribuendo al 49% della massa di nanoplastiche presente. Il polietilene è uno dei materiali plastici più usati, comune negli imballaggi destinati a singolo utilizzo, come i contenitori per cibo, sacchetti usa e getta, ma anche casalinghi, tubi etc. In Europa la domanda di PE nel 2019 era pari a oltre 14 milioni di tonnellate (circa il 30% di tutta la plastica utilizzata) e la presenza di microplastiche PE in Groenlandia è già stata rilevata nell’ultimo decennio, così come nella neve artica e nelle acque superficiali del Mare del Nord. Dunque la presenza di una elevata percentuale di nanoplastiche di derivazione PE non stupisce più di tanto.

Le fonti di origine, esattamente come per le microplastiche, possono ritenersi localizzate anche in siti distanti dalla Groenlandia. Gli scienziati in particolare ipotizzano che possano originarsi su terraferma, in aree urbane di Nord America e Asia, e poi essere trasportate a distanza dai venti. Altra opzione è che vengano prodotte in mare, dove macro e microplastiche PE vanno incontro a degradazione in nanoplastiche per effetto dei raggi UV.

Accanto al PE, in Groenlandia è stato rilevato un 21% di PET e 24% di residui derivanti dagli pneumatici. La prima tipologia è associata alle fibre del settore abbigliamento ma non solo. Si tratta del tipo di materiale utilizzato anche per produrre le bottiglie. A confronto con il PE, nel 2019 in Europa la domanda di PET era di 4 milioni di tonnellate. Rappresenta una delle forme dominanti di fibre microplastiche presenti nell’aria delle aree urbane e, esattamente come il PE, la presenza di microplastiche PET nelle nevi e nel ghiaccio artico è ben documentata. In termini di modalità di trasporto, le nanoplastiche PET sono state studiate soltanto a livello di deposizione sulle Alpi, dove si stima che arrivino dalle aree urbane dell’Europa occidentale. Possibile che anche in questo caso, si possa ipotizzare su vasta scala una combinazione di processi di trasporto che vedono coinvolti venti e correnti marine.

Come dichiarato in una intervista al The Guardian da Dušan Materić della Utrecht University, coordinatore dello studio, sconvolgente è notare la presenza di nanoplastiche in profondità nella neve campionata. Una sovrapposizione di strati accumulatisi nell’arco di circa 50 anni. Ciò porta alla conclusione che sia errato considerare le nanoplastiche un inquinante dei tempi moderni. Si tratta di un problema che ci portiamo appresso da decenni.

In Antartide…

Per quanto riguarda il ghiaccio antartico, è stata notata una concentrazione crescente di nanoplastiche dal fondo alla superficie dei campioni carotati (37,7 vs 67 ng/mL). Anche qui il PE risulta essere il materiale plastico maggiormente rappresentato, contribuendo a circa il 50% della massa totale di nanoplastiche rilevata. A seguire PP  e PET. Il PET in particolare non mostra differenze di concentrazione al variare della profondità. Assente invece la componente di materiale plastico derivante da pneumatici.

Spiegare il come le nanoplastiche possano arrivare in profondità nel ghiaccio antartico risulta complesso. Come evidenziato dai ricercatori, è molto difficile ipotizzare una contaminazione per via aerea in quanto il ghiaccio appare molto impermeabile (da aggiungersi che le precipitazioni nevose sono molto scarse), dunque al massimo le particelle “cadute dal cielo” rimarrebbero in superficie. Non si può escludere una contaminazione per mano antropica, anche in questo caso nella porzione più superficiale, ma il sito specifico di campionamento è stato selezionato a 22 km di distanza dalla Stazione statunitense McMurdo. La fonte più probabile di “incorporamento” delle nanoplastiche nel ghiaccio è dunque l’acqua superficiale del mare.

La pioggia di nanoplastiche sulle Alpi

Come accennato in precedenza, studi pionieristici sulle nanoplastiche, si sono e si stanno concentrando sull’arco alpino. Di recente l’EMPA (Laboratorio federale per le prove e la ricerca sui materiali) ha diffuso un comunicato riassumendo i risultati di una ricerca sulle nanoparticelle condotta sull’Hoher Sonnenblick (3106 m), vetta del Parco Nazionale Alti Tauri, in Austria, che accoglie dal 1886 un osservatorio dell’Istituto centrale di meteorologia e geodinamica.

Secondo le stime del ricercatore Empa Dominik Brunner e dei colleghi della Utrecht University e dell’Austrian Central Institute for Meteorology and Geophysics, sulla vetta, a 3000 metri di quota, si depositano ogni anno 42 Kg di nanoplastiche al chilometro quadrato. La concentrazione media di nanoplastiche nella neve superficiale è risultata pari a 46.5 ng/mL. I materiali più rappresentati: PP e PET.

L’origine di tali particelle, secondo i modelli elaborati dai ricercatori, è per gran parte da identificarsi a grande distanza dal sito di deposizione a partire da aree densamente popolate.

“Circa il 30% delle nanoplastiche rilevate sulla vetta si sono originate in un raggio di 200 km, a partire dalla principali città. Ad ogni modo, anche le plastiche che circolano negli oceani sembrerebbero essere in grado di essere immesse in atmosfera, tramite le onde o effetto spray. Circa il 10% delle particelle analizzate nello studio è stata trasportata sulla montagna dal vento per oltre 2000 km, parte di esse dall’Atlantico”, si riporta nel paper pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Pollution.

Nanoplastiche, pericolose e poco note

La scoperta di nanoplastiche in aree remote del Pianeta deve allarmarci in quanto, per estensione, ci porta a dire che siano ovunque. E c’è da averne timore. Si tratta di particelle che, nonostante la recente attenzione scientifica e dunque una carenza di studi in materia, risultano essere “tossiche”, più tossiche delle microplastiche, in grado di determinare effetti avversi sugli organismi ad esse esposte. La maggiore tossicità dipende dalle dimensioni, che consentono alle nanoparticelle di raggiungere, una volta inalate, gli alveoli polmonari. E dai polmoni potrebbero entrare nel sistema circolatorio. Utilizziamo il condizionale poiché le ricerche in merito sono in pieno svolgimento.

Studi scientifici hanno evidenziato che negli organismi marini possano influenzare negativamente i processi di accrescimento, ritardandone lo sviluppo, determinando malformazioni nello stato larvale e alterazioni subcellulari, quali un aumento dei ROS (specie reattive dell’ossigeno) e destabilizzazione lisosomiale. Negli esseri umani l’esposizione a nanoplastiche può determinare citotossicità, stati infiammatori e produzione dei ROS.

Le nanoparticelle potrebbero anche avere effetti sul clima, che la scienza sta cercando di indagare. La loro presenza nell’atmosfera potrebbe infatti influenzare la dispersione e assorbimento dei raggi luminosi. Così come la loro presenza nelle nubi potrebbe favorire la formazione di nuclei di condensazione e, una volta al suolo, depositata su neve e ghiaccio, potrebbero influenzare il famoso effetto albedo.

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Un commento

  1. LA MONTAGNA-SPETTACOLO E’ UNA MERCE, L’ALPINISMO SEMPRE PIU’ UNA FORMA DI SFRUTTAMENTO E COLONIZZAZIONE

    Gianni sartori

    L’inquietante domanda, su “L’alpinismo come forma di colonialismo?” ormai non va nemmeno posta. Se pur scritto con il punto interrogativo (nel titolo) il mio intervento di un paio di anni fa aveva scatenato le ire della lobby di coloro che vivono di “Montagna”. O meglio: sfruttandone l’immagine spettacolare e mercificata.
    Eventi successivi come la pandemia l’hanno resa superflua.
    Perfino tra gli addetti ai lavori qualche mese fa si potevano cogliere commenti critici – ma forse sarebbe il caso di passare decisamente al disgusto – per le vere e proprie cataste di bombole d’ossigeno abbandonate intorno ai campi base in Nepal (Everest, Dhaulagiri…). Almeno quattro a testa per centinaia di turisti-alpinisti e portatori (non chiamiamoli sempre sherpa per favore, è una etnia e non tutti si prestano a portare il fardello dell’uomo bianco) mentre a causa della pandemia gli ospedali erano saturi, nemmeno lontanamente in grado di gestire non dico le terapie intensive, ma perfino l’ordinaria amministrazione.
    E intanto gli alpinisti infettati dal Covid-19, o temendo di esserlo, pretendevano e ottenevano di farsi evacuare con gli elicotteri delle agenzie private (anche grazie a false dichiarazioni o diagnosi di “edema polmonare da aria sottile” per usufruire delle assicurazioni).
    Ma d’altra parte stupirsene sarebbe da ingenui. Questo è il mondo che anche la lobby dell’alpinismo variamente inteso, dai produttori di materiali tecnici alle agenzie commerciali (ma comprendente scrittori di montagna, promotori turistici, elicotteristi, eccetera) contribuisce a costruire e alimentare. Un bel giro d’affari, sia chiaro. Chiamiamolo businnes, capitalismo, società dello spettacolo o come vi pare, ma ormai (e non solo sul “tetto del mondo”) assume tutti i tratti di un moderno colonialismo. Per quanto riciclato e – malamente – camuffato.
    Non che sull’altro versante le cose vadano meglio. La Cina soidisant comunista starebbe pianificando un inedito sfruttamento turistico-alpinistico delle montagne e l’estensione della rete 5G fino alle alte quote. Così in futuro anche gli alpinisti più social, occidentali e non, potranno restare collegati permanentemente e trasmettere in diretta i loro autoscatti (forma italica per selfie). Per poi magari, è accaduto di recente, vedere uno di questi personaggi sentenziare in televisione sulla necessità di lavarsi meno per non sprecare energia (invece di rinunciare all’elicottero per raggiungere più vette in minor tempo).

    E il Pakistan (di cui mi occupavo in buona parte dell’intervento ricordando alcuni recuperi di alpinisti che evidentemente si erano spinti ben oltre le loro possibilità o semplicemente non avevano tenuto conto dei rischi di crolli nell’epoca del riscaldamento globale)?
    Qui, notoriamente, l’utilizzo degli elicotteri appare più complicato in quanto sostanzialmente in mano all’esercito pakistano, che eventualmente (pagando in anticipo, sappiatevi regolare) li mette a disposizione tramite l’agenzia Askari (?!?) gestita comunque da ex militari di alto grado (quando non li stanno utilizzando per scaricare in mare dissidenti e oppositori, preferibilmente beluci, in puro stile argentino). Tra l’altro, gli elicotteri sarebbero autorizzati a volare non oltre i 6500 metri. Poi è il pilota a prendersi eventualmente la responsabilità. Regolatevi quindi.
    E sarebbe interessante sapere cosa sta accadendo ora, sempre in Pakistan, dopo le devastanti alluvioni derivate dallo scioglimento dei ghiacciai.
    Insomma, ripeto, restarsene a casa sarebbe il minimo.

    Gianni Sartori

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