


“Alpinista ante litteram, esploratore, inventore, botanico, glaciologo e geologo, ma anche pastore, viaggiatore, scrittore, filosofo, conservazionista e attivista politico”, John Muir è pioniere della wilderness e “padre” dei parchi nazionali statunitensi. “Andare in montagna è tornare a casa. Saggi sulla natura selvaggia” raccoglie dieci suoi scritti, veri e propri inni alla natura selvaggia. Ogni cosa osservata, piccola o grande, dal picco più scosceso al crepaccio più profondo, dal vento alle tempeste, dal fiore più delicato al serpente a sonagli, riesce a suscitare la sua meraviglia e a risvegliare il suo senso di connessione con la natura. “Migliaia di persone stanche, esaurite, ipercivilizzate, stanno iniziando a scoprire che andare in montagna è tornare a casa; che la natura selvaggia è una necessità; e che i parchi e le riserve montane non sono utili solo in quanto fonti di legname e di acqua per irrigare – ma come fonti di vita”. Il concetto dell’errato antropocentrismo si ritrova più volte nelle sue parole: “Ci viene raccontato che il mondo fu creato appositamente per l’uomo – una congettura non corroborata dai fatti. Numerosi uomini rimangono spiacevolmente sorpresi quando trovano nell’universo divino qualcosa, non importa se vivo o morto, che in qualche modo non possono mangiare o rendere […] utile ai propri fini”. Spiega come la stessa esistenza di malattie mortali, bestie feroci e piante piene di spine dimostri come il mondo non sia stato creato a nostro uso e consumo, e come queste ultime due vengano considerate “mali deplorevoli” da estirpare dal Pianeta.
Muir nel raccontare il paesaggio e la montagna riesce ad affiancare al lirismo anche la scientificità: con occhio attento nota come la scarsa vegetazione in alcune zone sia legata più alla mancanza di terreno – portato a valle dal ghiacciaio – che al clima aspro. E ha perfettamente chiaro come quello che vediamo sia in continuo divenire: “Qui, nel silenzio profondo e meditativo, tutti quei territori selvaggi sembrano starsene immobili, come se il lavoro della creazione si fosse compiuto. Eppure sappiamo che dietro a questa immobilità esteriore vi è un movimento e un cambiamento incessante. Di tanto in tanto delle valanghe cadono da alcuni picchi distanti. Questi ghiacciai legati ai dirupi, apparentemente incastrati e immobili, scorrono come l’acqua, frantumando le rocce sottostanti. I laghi lambiscono le loro sponde di granito e le consumano, e ognuno di questi rivoli e giovani fiumi, creando una musica nell’aria, accompagna le montagne alle pianure. Qui risiedono le radici di tutta la vita delle valli, e qui, più semplicemente che altrove, si manifesta l’eterno flusso della natura. Il ghiaccio si trasforma in acqua, i laghi divengono distese, le montagne si fanno pianure. E mentre contempliamo i metodi che la Natura usa per creare i paesaggi, e leggiamo le sue testimonianze scolpite sulle rocce, ricostruiamo, seppur in modo imperfetto, i paesaggi del passato, e apprendiamo anche che come questi paesaggi che ora vediamo sono succeduti a quelli dell’era pre-glaciale, così a loro volta essi stessi stanno appassendo e svanendo, per essere sostituiti da altri ancora non nati.”
Descrive il terremoto in maniera estremamente vivida e precisa, così come i venti in grado di distruggere interi boschi – cosa che non può non richiamare alla mente Vaia. Le sue parole, anche se risalgono a più di cent’anni fa, ci parlano delle montagne che viviamo ancora oggi, degli animali che le abitano, dei pericoli che qualche volta ci si trova a correre – meravigliosi i racconti dei suoi incontri con gli orsi e della sua ascensione alla cima del Ritter. Con l’entusiasmo e gli occhi colmi di meraviglia di un bambino e le conoscenze di un saggio ci fa da guida nelle sue montagne (diversi monti, ghiacciai, sentieri, boschi, piante, animali, golfi, passi di montagna, spiagge, parchi e cascate portano oggi il suo nome), permettendoci di conoscere ancora meglio le nostre. E di pensare a queste parole quando assisteremo alla prossima alba in quota. “Com’è glorioso il saluto che il sole rivolge alle montagne! Poter assistere anche solo a questo vale mille volte le pene e i sacrifici di qualsiasi escursione. Le vette più alte ardevano come isole in un mare di ombre liquide. Poi il bagliore si riversò anche sui picchi e pinnacoli più bassi, e lunghe strisce di luce, scorrendo attraverso molti incavi e passaggi, cadevano fitte sulle distese gelate.”