Oggi raggiungere una vetta rappresenta una passione per tantissimi, ci sembra qualcosa di naturale, se non universale almeno molto diffuso. Eppure, “Trecento anni fa rischiare la vita per scalare una montagna sarebbe stato considerato pura follia. L’idea che la natura selvaggia potesse avere un fascino non esisteva. Alla cultura del Seicento e degli inizi del Settecento la natura appariva degna di interesse nella misura in cui esprimeva fecondità. Prati, vigneti, pascoli, i fertili solchi dei terreni coltivati: erano queste le componenti ideali del paesaggio. In altri termini, a essere bella era la natura domestica: il paesaggio cui l’aratro, la siepe, il canale di irrigazione avevano imposto un ordine umano.” Le forme irregolari e imponenti delle montagne erano in grado di turbare lo spirito, venivano considerate deserti privi di vita, repellenti dal punto di vista estetico. E poi erano pericolose: si pensava che bastasse uno starnuto, o il battito d’ali di un uccello per far staccare una valanga, si rischiava di essere inghiottiti dai crepacci, o di incontrare mostri o divinità. L’ostilità del territorio si materializzava, da pietra diventava qualcosa di angoscioso e incombente, in grado di scoraggiare chiunque provasse ad avvicinarsi.

Le cose cambiano
Con la seconda metà del Settecento, però, le cose iniziarono a cambiare: il paesaggio alpestre cominciò a essere percepito come attraente e non ci si avvicinava più alle montagne solo per necessità. Nel 1786 fu scalato il Monte Bianco, anche se per la nascita dell’alpinismo vero e proprio sarebbe stato necessario aspettare la metà dell’Ottocento. Non fu solo la spinta dettata dalla neonata geologia, ma anche e soprattutto la nuova nozione di bellezza a spingere le persone sulle montagne. Eppure, nel corso di quella manciata d’anni, esse non erano certo cambiate. Quelle che si erano modificate nel corso del tempo erano le “Montagne della mente” (Robert Macfarlane, Einaudi), non quelle di roccia e ghiaccio. Agli occhi del tardo XIX secolo, il loro valore estetico era diventato indiscutibile, avevano ormai iniziato a esercitare una straordinaria – e spesso fatale – attrazione sullo spirito umano. “Entro la fine di quel secolo tutte le vette principali delle Alpi erano state scalate, in gran parte da inglesi, e quasi tutti i passi identificati e segnati sulle carte. La cosiddetta «età dell’oro» dell’alpinismo era finita. Le montagne europee cominciavano a passare di moda e gli alpinisti rivolgevano la loro attenzione alle altre grandi catene montuose della terra, esponendosi a disagi estremi e a pericoli inimmaginabili per scalare le vette del Caucaso, delle Ande e dell’Himalaya”.
Le montagne diventano oggetto di desiderio
Da luoghi orribili acquisirono una tale valenza fantastica, una così grande capacità di colpire l’immaginazione, da divenire non di rado oggetto di ossessione. Le gesta di chi compiva queste scalate venivano considerate eroiche e seguite, in patria e non solo, con grande trepidazione. Quando George Mallory e il suo compagno di cordata Andrew Irvine persero la vita nel 1924 nel tentativo di scalare l’Everest, per gli inglesi fu un lutto nazionale. Ora come allora, infatti, ciò che rende la frequentazione delle montagne diversa da molte altre attività del tempo libero è il fatto che, ogni tanto, qualcuno non ritorna. “Ogni anno muoiono sulle montagne del mondo centinaia di persone; migliaia restano ferite. Il solo Monte Bianco ha ucciso mille persone, il Cervino cinquecento, l’Everest un centinaio, il K2 più o meno lo stesso, la parete nord dell’Eiger sessanta. Nel 1985 solo sulle Alpi svizzere persero la vita poco meno di duecento persone. Come si è passati, in trecento anni, dall’evitare a ogni costo di salire su un monte, all’accettare la possibilità di morire nel farlo? In questo ha avuto un ruolo sostanziale il cambiamento del concetto di rischio: è qualcosa che è sempre esistito, ma che per lungo tempo si è accettato e giustificato solo in nome di qualche altro fine, come il progresso scientifico, la gloria personale o un vantaggio economico. Circa due secoli e mezzo fa, invece, è diventata di tendenza la paura in sé e per sé. Al rischio si accompagnava un’apprezzata gratificazione: l’euforia e l’eccitazione – legate agli effetti dell’adrenalina – che il pericolo porta con sé, l’intensa sensazione di vita che si prova quanto più ci si è avvicinati a perderla. Da quel momento la ricerca del rischio – il deliberato mettersi in condizioni di provare paura – divenne una cosa desiderabile, quasi un lusso“.
La nascita del concetto di “Terra”
Per l’attuale idea di montagne ebbe grande importanza la nascita della dimensione temporale nel concetto di “Terra”: in passato si riteneva che essa avesse meno di seimila anni e che in quel lasso di tempo non fosse visibilmente cambiata. Nessun paesaggio aveva, di fatto, un passato da contemplare, dal momento che la superficie del mondo non aveva mai mutato aspetto. Grazie a Thomas Burnet e al suo Telluris Theoria Sacra pubblicato nel 1681, però, la nascita delle montagne non risaliva più al terzo giorno della creazione divina, ma si trattava del residuo rimasto una volta che le acque del diluvio universale si erano ritirate. Pare che nessun’altra opera seicentesca di geologia abbia avuto tanti lettori quanti ne ebbe la Theoria di Burnet. Il dibattito che seguì aveva attirato l’attenzione sull’aspetto delle montagne: da mera tappezzeria e sfondo erano diventate oggetti degni di contemplazione in sé e per sé, e ci si ritrovò a postulare un passato per i luoghi selvaggi della terra. La “rivoluzione geologica” che seguì a questa e a molte altre opere fu fondamentale: una volta che venne dimostrato che la terra aveva milioni di anni ed era soggetta a mutamentiimmensi e costanti, le montagne non furono più quelle di prima. Non erano qualcosa di eterno e statico, si erano formate, deformate, riformate nell’arco di chissà quanti millenni: “Riconoscere che la roccia della montagna è vulnerabile all’attrito del tempo significa inevitabilmente riflettere sull’inquietante transitorietà del corpo umano. Ma c’è anche qualcosa di stranamente gratificante nell’esperienza del passato profondo. È vero, siamo costretti a riconoscere di essere meno che nulla, nei vasti progetti dell’universo. Ma a questa consapevolezza si accompagna l’emozionante constatazione di esistere.”
Raggiungere la vetta e il fascino della montagna
Similmente mistico è il raggiungere la vetta: la maggior parte delle religioni opera su un asse verticale, dove il paradiso o il suo stato equivalente si trovano in alto, il loro contrario in basso. Salire è dunque essenzialmente avvicinarsi alla divinità. In epoca più recente, e anche da un punto di vista più laico, la scalata e la vetta sono diventate metafore di impegno, fatica e successo. “La vetta è l’obiettivo, le pendici che a essa conducono sono l’ostacolo da superare, la sfida che ci viene lanciata. Quando compiamo un’ascensione, attraversiamo non solo il terreno reale che conduce alla vetta, ma anche i territori metafisici della lotta e della conquista. Raggiungere una vetta implica in modo molto tangibile l’aver trionfato sulle avversità: l’aver conquistato qualcosa, sia pure qualcosa di assolutamente inutile. […] Il gusto del successo non è, tuttavia, l’unico piacere legato all’altezza. C’è un godimento anche nell’esperienza sensoriale dell’alta quota: una felicità che attiene non alla competizione, ma alla contemplazione. L’altezza rende estranea anche la veduta più familiare”. La prospettiva aerea, per quanto meravigliosa, oggi ci stupisce meno, dopo aver visto innumerevoli foto scattate da aerei e satelliti, eppure, ai primi conquistatori dell’aria sottile, quell’ampiezza di veduta dev’essere sembrata quasi divina. Ma nemmeno qualcosa che ci appare universalmente condivisibile come l’apprezzamento per la bella vista ha radici poi così antiche: fino al Settecento, i viaggiatori che attraversavano i valichi alpini si facevano spesso bendare gli occhi per non spaventarsi alla vista di dirupi e guglie rocciose. Salvo rare eccezioni, prima del XVIII secolo la cultura europea non conosceva l’apprezzamento estetico del panorama. Chi, suo malgrado, era costretto a salire di altitudine, era così preoccupato per la propria sicurezza da non trovare alcun sollievo nella vista che la montagna poteva offrire. Anche la fascinazione per l’ignoto ha seguito un percorso simile.
La percezione della montagna
“Nel corso degli ultimi tre secoli, dunque, si è assistito in Occidente a un’immensa rivoluzione nella percezione delle montagne. Le qualità che un tempo le rendevano oggetto di rifiuto – verticalità, desolazione, pericolosità – sono oggi fra gli aspetti più apprezzati. Il mutamento è stato così radicale che a guardarlo dalla prospettiva odierna non si può fare a meno di constatare un dato di fatto riguardo al paesaggio: il modo in cui lo percepiamo è in gran parte dettato dalla cultura in cui viviamo. […] quando guardiamo un paesaggio, non vediamo quello che c’è, ma quello che pensiamo ci sia. […] Ciò che chiamiamo «montagna» è dunque una collaborazione tra certe forme del mondo fisico e la nostra immaginazione: una montagna della mente.”
“Montagne della mente” non è una storia dell’alpinismo, ma dell’immaginazione, non è un manuale sui cambiamenti geologici, ma su quelli che sono avvenuti nella cultura, nel pensiero, nella mente. Non un atlante fotografico, ma un sentiero che tocca il modo in cui abbiamo immaginato di andare in montagna, gli occhi con cui l’abbiamo guardata, le sensazioni che ha fatto nascere in noi. Montagne di idee, paure, speranze, che di generazione in generazione si sono modificate fino ad arrivare a noi, oggi, come le sperimentiamo.