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Heinrich Harrer

“Ero giovane. Lo ammetto, ero estremamente ambizioso e mi era stato chiesto se avessi voluto diventare l’istruttore di sci delle SS. Devo dire che approfittai subito dell’occasione. Devo anche dire che, se mi avesse invitato il Partito Comunista, mi sarei unito a loro. E se mi avesse invitato il diavolo in persona, sarei andato con il diavolo”

Heinrich Harrer

Per il grande pubblico è l’autore di “Sette anni in Tibet”, il fortunato libro autobiografico nel quale raccontò il suo avventuroso soggiorno alla corte del giovane Dalai Lama, una storia resa ancor più celebre dall’adattamento cinematografico hollywoodiano interpretato da Brad Pitt. Per gli appassionati di alpinismo di tutto il mondo è uno dei protagonisti della prima salita della parete nord dell’Eiger, l’Orco dell’Oberland, la montagna simbolo dell’alpinismo estremo, di cui cantò l’epopea ne “Il Ragno Bianco”, il libro divenuto un “testo sacro” della letteratura di genere. Per gli scalatori italiani è tutto questo e anche qualcosa di più. Nel sentire comune, infatti, è il più spietato denigratore della nostra tradizione alpinistica, da lui stigmatizzata e messa in croce nella figura di Claudio Corti, il rocciatore lecchese che fu protagonista del tragico tentativo di ripetizione della sua via alla nord dell’Eiger. Quella di Heinrich Harrer è una figura tanto affascinante quanto contraddittoria, proprio per questo estremamente rappresentativa di quel complesso fenomeno sociale e sportivo che fu l’alpinismo eroico e nazionalista degli Anni 30.

La vita

Heinrich Harrer nasce il 6 luglio del 1912 a Obergossen, in Austria, dal matrimonio fra Josef e Johanna Harrer.
Nel 1927 la famiglia si trasferisce a Graz, dove Heinrich frequenta le scuole superiori per iscriversi poi alla facoltà di geografia. Nel frattempo si avvicina alla pratica dello sci e della scalata ed entra a far parte della sezione locale del Club Alpino Austriaco.

Come sciatore dimostra presto di di possedere qualità eccezionali che, nel 1936, lo portano a prendere parte alla alle quarte Olimpiadi invernali di Garmisch-Patenkirchen nelle specialità della discesa libera e dello slalom. Nel 1937 vince invece i campionati mondiali studenteschi a Zell-am-See, nella discesa libera. In quello stesso anno consegue il brevetto di Guida Alpina.

Il 1938 rappresenta per lui un momento di svolta fondamentale. Già membro delle Camice Brune, dopo l’annessione dell’Austria al Reich tedesco, Harrer aderisce ufficialmente al partito Nazionalsocialista ed entra a far parte delle SS. Nel mese di luglio dello stesso anno, assieme all’amico Fritz Kasparek e alla cordata dei tedeschi Ludwig Vörg e Andreas Heckmair, realizza la prima salita assoluta della parete nord dell’Eiger (3967 m), nelle Alpi Bernesi.

A dicembre sposa Lotte Wegener, figlia di Alfred Wegener esploratore polare e ideatore della teoria della deriva dei continenti.

Nel 1939 prende parte alla spedizione nazionale tedesca al Nanga Parbat. Appena sbarcati in India gli alpinisti sono sorpresi dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Arrestati nel porto di Karachi vengono internati in un campo di prigionia nell’India settentrionale, da cui Harrer riesce a fuggire alla fine del mese di aprile del 1944 con il compagno Peter Aufschnaiter. I due cominciano un improbabile fuga attraverso gli alti passi himalayani, nel tentativo di varcare il confine e raggiungere il Tibet, fuori dalla giurisdizione britannica. Incredibilmente, dopo un viaggio durato due anni e più di 2000 chilometri, nel 1946 riescono ad arrivare a Lhasa dove Harrer lavora da prima come traduttore e fotografo e poi come insegnante e consigliere del Dalai Lama, il capo spirituale e politico del Tibet. Il 9 settembre del 1951 l’Esercito popolare di liberazione cinese occupa Lhasa dopo aver invaso il paese e Harrer è costretto a fare rientro in Austria. Racconterà la sua esperienza fra le montagne himalayane nel fortunato libro autobiografico “Sette anni in Tibet”, edito nel 1953.

La sua attività di alpinista ed esploratore prosegue anche nei decenni successivi, con svariate spedizioni nei luoghi più remoti della terra: dall’Amazzonia all’Alaska, dall’Africa alla Nuova Guinea, passando per il Borneo e il Bhutan. Nel 1958 esce “Il Ragno Bianco”, il suo libro dedicato alla storia della parete nord dell’Eiger, anch’esso, come il precedente destinato a divenire un classico.Nel 1997 l’uscita del film tratto da “Sette anni in Tibet” rinnova la notorietà del personaggio e delle sue imprese, ma al contempo accende le polemiche sul suo passato nazista, mai pubblicamente rinnegato.

Il 7gennaio del 2006 Heinrich Harrer muore a Friesach, in Austria.

L’alpinismo

Prima della stupefacente impresa sulla nord dell’Eiger il curriculum di Heinrich Harrer è quello di un arrampicatore di ottimo livello, con all’attivo la ripetizione di molti difficili itinerari sulle Alpi Orientali e l’apertura di vie impegnative come quella del 1934 alla Cima Ovest di Lavaredo e quella del ’36 alla Punta Grohmann del Sassolungo. Non lo si può però annoverare fra i fuoriclasse di quegli anni.

Il suo ingresso trionfale nella storia dell’alpinismo avviene proprio con la salita della mitica Nordwand. Immensa (circa 1600 metri di dislivello dalla base alla vetta), austera e caratterizzata da ripidi tratti di neve e ghiaccio alternati da sezioni di roccia di pessima qualità e da particolari condizioni meteorologiche, che la rendono un vero e proprio catalizzatore per le tempeste, a partire dai primi Anni 30 la nord dell’Eiger si era imposta come uno dei massimi problemi insoluti delle Alpi, diventando l’ossessione per un intera generazione di scalatori, soprattutto di area tedesca. Le innumerevoli tragedie che segnarono i primi tentativi di salita non fecero altro che ingigantire la fama di pericolosità e inviolabilità della grande parete gettando benzina sul fuoco delle ideologie superomiste e nazionaliste che caratterizzavano la cultura alpinistica del tempo: sfidare l’Orco divenne una prova di superiori qualità fisiche e morali, nonché una questione di orgoglio nazionale e razziale.

È in questo clima generale che Harrer e il compagno Fritz Kasparek attaccano la nord il 21 luglio del 1938. In verità i due non sono attrezzati al meglio per l’impresa. Hanno probabilmente sottovalutato le difficoltà su ghiaccio e neve e solo Kasparek, che sale da primo di cordata, dispone di un paio di ramponi tradizionali a 10 punte, mentre Harrer calza un paio di scarponi con la suola chiodata. Per questo, il giorno successivo, vengono raggiunti dalla cordata dei tedeschi Ludwig Vörg ed Andreas Heckmair, che sale velocissima, grazie all’uso dei nuovi ramponi a 12 punte, che consentono di progredire in posizione frontale, evitando il lento e faticoso lavoro di intaglio dei gradini nel ghiaccio. Diventa logico per le due cordate unire le forze e procedere nella salita con Heckmair in testa e Harrer a chiudere. I due giorni successivi sono una lotta epica con le difficoltà tecniche, il maltempo e le scariche di pietre e le slavine che spazzano la parete, ma alla fine, il 24 luglio del 1938, i quattro escono sulla cima. Harrer vorrebbe posare per le foto di rito esponendo il vessillo con la croce uncinata, ma rinuncia all’idea di fronte al disappunto dei compagni.

Dopo questa salita la sua carriera alpinistica sembra indirizzata verso altri grandi risultati, ma il destino vuole diversamente: la prigionia in India e la permanenza in Tibet lo portano lontano dalle pareti, dall’alpinismo e probabilmente anche dalle simpatie nazionalsocialiste della gioventù.

Dopo il ritorno dal Tibet Harrer si dedica a numerose spedizioni etnografiche ed esplorative,nelle quali ha modo di mettere a frutto la propria esperienza di scalatore. Nel 1953 esplora la sorgente del Rio delle Amazzoni effettuando la prima salita del Nevado Ausangate una cima di 6384 m. Nel ’54, con Fred Beckey è in Alaska, dove realizza le prime salite del Mount Deborah (3761 m), Mount Hunter (4442 m) e del Mount Drum (3661 m). Nel febbraio 1962 è a capo della squadra di quattro alpinisti che effettua la prima salita della Piramide di Carstensz (4884 m), la vetta più alta dell’Oceania.

Il “caso” Claudio Corti

Nel libro “Il Ragno Bianco” pubblicato in prima edizione nel 1958 e divenuto un testo fondamentale della letteratura alpinistica, Harrer racconta la storia alpinistica della parete nord dell’Eiger dai primi tentativi di salita fino agli eventi contemporanei. Un passaggio significativo del libro è dedicato alla ricostruzione della tragedia avvenuta nel 1957, durante un tentativo di ripetizione della via da lui aperta nel 1938.

In quell’occasione la cordata degli italiani Claudio Corti e Stefano Longhi si unì a quella dei tedeschi Franz Mayer e Gunther Nothdurft. Infortuni e problemi di salute rallentarono la progressione dei quattro scalatori, che presto si trovarono martoriati dall’arrivo della tempesta. La scalata si trasformò in tragedia: dopo un brutto volo i compagni dovettero abbandonare Longhi, ormai incapace di continuare, con la speranza di uscire dalla parete per allertare i soccorsi. Poco dopo però anche Corti venne colpito da una scarica di sassi e i due tedeschi dovettero lasciare anche lui, cercano di arrivare in vetta per la salvezza di tutti. La loro cordata però scomparve misteriosamente, probabilmente spazzata via da una slavina lungo la via di discesa. Grazie agli osservatori che monitoravano la nord dagli alpeggi di Grindelwald, i soccorsi si mossero comunque, mettendo in atto un’incredibile operazione di recupero dalla quale usci vivo il solo Corti. Il corpo senza vita del povero Longhi rimase a lungo prigioniero della Nordwand.

Nel ricostruire questi eventi Harrer, attribuì pesantissime responsabilità all’unico sopravvissuto, descritto come un uomo frustrato e in cerca di gloria, sicuramente non all’altezza della difficoltà della salita. L’autore si spinge addirittura ad ipotizzare che l’italiano, colto da un accesso di follia, potesse aver scaraventato Mayer e Nothdurft giù dalla parete. Nel 1962 il ritrovamento dei corpi dei due tedeschi lungo la via di discesa della parete ovest e gli ulteriori dati emersi negli anni a seguire, scagionarono completamente Corti da queste infamanti accuse, qualificandolo anzi come il leader delle due cordate e il protagonista degli sforzi messi in atto dai quattro per raggiungere la salvezza.

Pur prendendo atto di queste nuove informazioni anche nelle successive edizioni del suo libro Harrer non volle mai modificare il giudizio negativo espresso sulle qualità umane e alpinistiche dello scalatore italiano. Forse su questa sua ottusa e colpevole ostinazione pesò il retaggio degli antichi dissidi fra l’Austria, il suo paese natale, e l’Italia, che per tanto tempo avevano fomentato l’accesa rivalità, se non addirittura l’astio, fra gli alpinisti delle due nazioni.

Libri

Film

Sette anni in Tibet, Regia di Jean-Jacques Annaud, USA, 1997, 128′

L’assoluta semplicità. Questo è ciò che amo. Quando stai scalando la tua mente è chiara e libera da ogni confusione. Hai la concentrazione. E all’improvviso la luce diventa più nitida, i suoni sono più ricchi e tu sei pieno della presenza profonda e potente della vita.

Heinrich Harrer

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