Ambiente

Antartide. Lo scioglimento dei ghiacciai si studia con l’aiuto delle foche

Nel 2019 avevamo avuto il piacere di scoprire l’abilità delle foche di Weddel di prendere parte a ricerche scientifiche antartiche. Il team pinnato, dotato in maniera non invasiva di dispositivi satellitari, aveva in tale occasione il compito di raccogliere dati negli abissi del ghiacciaio di Thwaites per valutarne le dinamiche di scioglimento, nell’ambito del progetto “Tarsan” (Thwaites-Amundsen Regional Survey and Network). Di recente un team “di ricerca” costituito da sette foche di Weddell e sette elefanti marini ha fatto la sua comparsa sulla rivista scientifica Nature.

I 12 mammiferi marini hanno rappresentato l’elemento chiave di un progetto, che ha visto coinvolti ricercatori della University of East Anglia di Norwich (UK), University of Gothenburg (Svezia),  University of St Andrews (UK) e University of Rhode Island (USA), finalizzato al monitoraggio dello scioglimento del ghiacciaio di Pine Island, nel mare di Amundsen, durante la stagione invernale.

Assieme al Thwaites, il Pine Island è il ghiacciaio antartico maggiormente attenzionato dagli scienziati in quanto il loro collasso, date le dimensioni delle piattaforme (sommati raggiungono una estensione attorno ai 400.000 chilometri quadrati), contribuirebbe in maniera significativa all’innalzamento dei mari. Lo scorso anno l’ESA aveva lanciato l’allarme di fronte a un evidente peggioramento delle fratture presenti sui due ghiacciai antartici, monitorate via satellite da anni: “Il primo passo verso la disintegrazione di questi colossi di ghiaccio e dell’innalzamento del livello del mare”.

Perché non bastano i satelliti?

Ci si potrebbe chiedere perché sfruttare foche e elefanti marini per studiare “in campo” lo scioglimento delle calotte, quando disponiamo di satelliti in grado di fornirci informazioni precise sui mutamenti di spessore delle calotte, dunque sulla loro degradazione.

Tramite studi satellitari, gli scienziati hanno appurato che le cause dello scioglimento dei ghiacci siano essenzialmente due: calde correnti oceaniche che sciolgono la parte inferiore delle calotte polari galleggianti, e aria calda che causa il loro disgelo dall’alto. A subire gli effetti maggiori risulta essere l’area occidentale del continente antartico.

“Si possono perdere enormi quantità di ghiaccio in mare senza che le estati raggiungano mai un caldo sufficiente a sciogliere la neve in cima ai ghiacciai – la dichiarazione di sintesi del dottor Hamish Pritchard della British Antarctic Survey nel Regno Unito, autore principale dello studio “Antarctic ice-sheet loss driven by basal melting of ice shelves”, pubblicato lo scorso ottobre su Nature – . Gli oceani possono fare tutto il lavoro dal basso.”

“Studi hanno mostrato che i venti antartici sono cambiati a causa dei cambiamenti del clima – aggiunge Pritchard – . Ciò ha influito sulla forza e sulla direzione delle correnti oceaniche. La conseguenza è che dell’acqua calda si infila al di sotto del ghiaccio galleggiante. Questi studi e i nostri nuovi risultati suggeriscono che i ghiacciai in Antartide stanno reagendo rapidamente a un clima che cambia.”

Diventa importante dunque poter andare a dare uno sguardo nelle profondità, per comprendere dove e come tali correnti calde si muovano. Soprattutto sui ghiacciai più estesi occidentali, che come anticipato sono il Thwaites e il Pine Island.

Il compito delle foche-sub

Come si legge nell’introduzione del paper “Winter seal-based observations reveal glacial meltwater surfacing in the southeastern Amundsen Sea”, che riporta i risultati del recente studio antartico coordinato dalla dottoressa Yixi Zheng della University of East Anglia, Norwich, UK, che ha visto protagoniste foche ed elefanti marini, le correnti calde (warm modified Circumpolar Deep Water o mCDW, caratterizzata da circa 3°C di temperatura) raggiungono la base della piattaforma a una profondità di oltre 450 metri e ne inducono un riscaldamento che comporta come conseguenza lo scioglimento degli strati superficiali di ghiaccio. Si viene così a formare uno strato intermedio di acqua di fusione, relativamente fresca, più fredda della mCDW ma più calda della cosiddetta winter water (WW) circostante.

L’acqua di fusione può risalire verso la superficie trasportando calore e nutrienti. E nonostante si tratti di quantità limitate rispetto alle acque oceaniche con cui entrano in contatto, possono promuovere la formazione delle “polynya”, ovvero aree di mare circondate dal ghiaccio (insomma, dei grandi buchi nel ghiaccio), al largo delle banchise, che influenzano a feedback la stabilità dei margini delle calotte, facilitandone lo scioglimento.

La distribuzione delle acque di fusione dalla profondità verso la superficie viene rilevata nella stagione estiva attraverso sensori trasportati via nave, così da rilevare in sintesi temperatura e salinità alle varie quote. Ma in inverno il congelamento del mare impedisce l’arrivo dei mezzi. Ecco che entrano in gioco coloro che continuano a muoversi fin nelle profondità più remote dell’Antartide alla ricerca di cibo, anche nella stagione invernale: le foche. Chiariamo di quali profondità parliamo, per comprendere quanto siano speciali questi aiutanti pinnati: circa 500 per le foche di Weddell, fino a 1500 per gli elefanti marini. 

Gli animali, come anticipato, vengono dotati di sensori termici che poi vengono persi, cadendo in fase di muta degli esemplari. Gli scienziati assicurano che non si tratti assolutamente di una presenza invasiva.

Cosa succede allora in inverno?

Le conclusioni dello studio portato a termine grazie alle foche e agli elefanti marini non sono affatto positive. In inverno, la stagione che siamo portati a immaginare meno dannosa per la salute dei ghiacci antartici, le acque di fusione svolgono invece la loro azione imperturbate.

Le acque di fusione invernali appaiono infatti più concentrate in superficie che in profondità, determinando un aumento del ferro disciolto nella regione eufotica (dove giunge la luce e può dunque avvenire la fotosintesi, al di sopra dei 200 metri di profondità) e del calore trasportato verso l’alto, che può aumentare la temperatura degli strati superficiali del mare fino a 1°C sopra lo zero. Un ostacolo evidente alla formazione di nuovo ghiaccio e promovente una espansione delle polynya.

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