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Doppiette sì, scarponi no. Il pasticcio della montagna in zona arancione

Nell’Italia divisa in fasce colorate dal Covid, chi frequenta la natura sparando ha più diritti di chi usa scarponi, ciaspole o sci. Il 26 febbraio, quando Perugia è entrata in zona rossa, un decreto della Regione Umbria ha deciso la chiusura delle scuole, il divieto di allenamenti sportivi e di consumare alimenti e bevande all’aperto. Norme severe, dettate da un’emergenza acuta. In deroga, anche se la stagione venatoria si era conclusa, il provvedimento autorizzava gli spostamenti fuori dal Comune di residenza per il monitoraggio della fauna selvatica e la caccia di selezione.

L’Umbria ha una giunta di centro-destra guidata da Donatella Tesei. Negli ultimi mesi, però, il pregiudizio a favore dei cacciatori è stato bipartisan. In autunno, con la caccia aperta, le doppiette hanno avuto corsie preferenziali in Regioni di centro-destra come l’Abruzzo di Marco Marsilio, e in altre amministrate dal centro-sinistra come il Lazio di Nicola Zingaretti e la Toscana di Eugenio Giani. La caccia, in Italia, è in declino. Da un milione e mezzo negli anni Ottanta, i praticanti sono scesi a mezzo milione. “Il numero dei cacciatori in Italia è in rovinoso declino, i pochi che continuano a esercitare la caccia sono sempre più anziani” scrive un editoriale del sito cacciamagazine.it. Eppure ARCI Caccia, Italcaccia e le altre associazioni venatorie, insieme all’industria delle armi, continuano a influenzare le scelte dei governi nazionali e locali. E’ una lobby forte, che riesce a lasciare spazio ai cacciatori anche quando il Covid impone restrizioni a tutti gli altri.    

Di fronte a questa potenza, il mondo della montagna fa una triste figura. Anche lasciando da parte l’industria dello sci, che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone, le rilevazioni recenti mostrano che gli italiani che praticano escursionismo, alpinismo, arrampicata, scialpinismo, fondo e ciaspole si avvicinano al milione. Includendo la bici i numeri sono molto più alti. Il Club Alpino Italiano, con i suoi 300.000 soci, dovrebbe essere l’interlocutore privilegiato di chi governa a Roma, e negli enti locali. Il suo ruolo per il Soccorso Alpino, i rifugi e altro ne fa un interlocutore riconosciuto dello Stato. Ma sulla possibilità di praticare la montagna in zona arancione, in modo individuale e distanziato, il Club non è riuscito ad avere una risposta chiara. 

Il 21 gennaio, dopo le zone rosse di Natale e Capodanno, Vincenzo Torti, Presidente generale del CAI, ha scritto al premier Giuseppe Conte. Il quesito, scritto con la precisione di un legale (Torti, come Conte, è avvocato), era questo. Si chiede se, al solo ed esclusivo fine di svolgere una di tali attività sportive “in montagna”, sia consentito a quanti abitino in un comune che di montagne sia privo, spostarsi in altro comune “di montagna”, facendo rientro immediato alla propria residenza al termine della stessa”. Il 28 gennaio, il Ministero dell’Interno ha risposto con una “nota di riscontro” fumosa, insufficiente e che rimandava agli “orientamenti espressi con le FAQ pubblicate sul sito istituzionale www.governo.it”. Nelle FAQ, come nella nota del Viminale, si parla di “attività motoria” e di “attività sportiva”. In zona gialla sono entrambe consentite nel territorio regionale, in area rossa si deve restare nel proprio Comune. Con l’arancione si entra nel mondo dei dubbi. E’ possibile recarsi in un altro Comune per fare attività sportiva solo qualora questa non sia disponibile nel proprio Comune, purché nella stessa Regione o Provincia autonoma” recitano i documenti ufficiali. Da questo privilegio è esclusa la semplice “attività motoria”. 

Sembra evidente che lo scialpinismo e il fondo siano “attività sportive”. Nessuno invece, né a Palazzo Chigi né al Viminale, ha specificato in quale delle due categorie rientrano l’escursionismo con o senza ciaspole, o l’alpinismo con piccozza e ramponi. Le parole “escursionismo” e “alpinismo” sono di facile comprensione, compaiono nei dizionari cartacei e online, toccano la vita di centinaia di migliaia di italiani. Ma il silenzio è rimasto totale. Sul sito ufficiale loscarpone.cai.it, Vincenzo Torti e la Sede centrale del CAI hanno aggiunto un commento corretto ma che non risolve al 100% la questione. Se si vive in area arancione, si spiega, “a essere consentita al di fuori del proprio Comune, è solo ed esclusivamente l’attività sportiva e non la semplice gita o la passeggiata”, e naturalmente “lo spostamento deve limitarsi all’attività stessa, con rientro nel proprio Comune immediatamente dopo averla praticata”. Questo chiarimento” conclude Torti “consente di spostarsi dal proprio Comune per andare in montagna per fare attività sportiva in natura”.

A fine gennaio, dopo lo scambio tra CAI e Governo, l’Italia si è tinta di giallo. A fine febbraio, rosso e arancione hanno ripreso uno spazio dominante. Dal Governo di Giuseppe Conte si è passati a quello di Mario Draghi, che include vari ministri che praticano la montagna. Ma le norme non sono state chiarite, e le parole “escursionismo” e “alpinismo” restano escluse dal vocabolario dello Stato. “Non abbiamo avuto nuovi contatti con la Presidenza del Consiglio e il Viminale” ci ha detto Vincenzo Torti venerdì 5 marzo.    

L’altra novità recente è l’arancione scuro (o “rafforzato”), che invita i cittadini a più attenzione e le forze dell’ordine a controlli più severi. Ma nell’ordinanza del 4 marzo della Regione Lombardia si parla di scuola, parchi pubblici, seconde case e negozi, e non di attività nella natura. Le parole “escursionismo” e “alpinismo” sembrano ignote anche al Pirellone. 

Che dire di fronte a questa situazione confusa? La prima cosa, che ripetiamo da mesi, è che le attività nella natura e in montagna, se non ci si assembra, sono infinitamente meno pericolose della “movida” (oggi vietata), delle metropolitane, dei centri commerciali, delle affollate passeggiate nelle zone dello shopping. La seconda è che, dall’autunno, l’incertezza su cosa si può fare e cosa no genera rabbia, frustrazione e sfiducia tra gli appassionati di montagna, in un momento in cui lo Stato avrebbe bisogno del supporto di tutti. La terza è che il mondo della montagna, dal CAI e dalle altre associazioni fino alle guide alpine e alle aziende che producono vestiario e materiali dovrebbe prendere esempio da quello venatorio per creare una lobby efficace. Del gruppo parlamentare degli Amici della Montagna si sono perse le tracce, e invece ce ne sarebbe bisogno. L’ultima cosa, tipicamente italiana, è che l’interpretazione di una norma confusa, e che prevede sanzioni dolorose (i 400 euro di multa salgono a 500 in più se ci si sposta in auto) viene scaricata sui tutori dell’ordine incaricati dei controlli, dai Carabinieri ai vigili urbani. 

Nell’Appennino emiliano, nella zona arancione di gennaio, sono stati lasciati passare gli scialpinisti (un paio di sci evidentemente significa sport), ma respinti gli escursionisti con le ciaspole, che magari avevano in programma itinerari lunghi e impegnativi. Giorni fa, la Polizia locale di un Comune montano dell’Emilia ha ammesso di multare i gruppi familiari trovati in escursione con le ciaspole (famiglia vuol dire passeggiata, e quindi divieto) ma di lasciar passare i ciaspolatori singoli e dall’aspetto sportivo. Episodi come questi possono far sorridere, e richiamano alla memoria le commedie all’italiana che abbiamo visto al cinema o in TV. Ma le multe fanno male al portafogli, generano sfiducia nello Stato, impediscono in un periodo difficile di trovare conforto nella natura. 

Chissà se, grazie a Mario Draghi, nel vocabolario di Palazzo Chigi e del Viminale entreranno finalmente le parole “escursionismo” e “alpinismo”? Sarebbe utile anche in vista della primavera e dell’estate, che si avvicinano a larghi passi, e porteranno ancora più gente in montagna.    

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