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Selvaggia Lucarelli, ecco perché dobbiamo parlare anche di sci

Ieri sera in un momento di attesa lavorativa stavo scrollando (mi si perdoni il verbo giovanile) Instagram quando mi è comparso un post di Selvaggia Lucarelli. Sì, seguo “la Lucarelli”, che reputo una donna che porta avanti alcune battaglie importanti. Ma il suo ultimo post mi ha raggelato il sangue, sarà che da montanara per di più bergamasca ha toccato più di una ferita aperta.

Il post

La prima sensazione è lo shock dato dall’impatto emotivo derivante dalle parole scelte dalla giornalista; la seconda è stata un fastidio per la superficialità con cui si sta affrontando un tema importante che meriterebbe una riflessione più profonda.

Una metafora sbagliata

Partiamo dall’inizio. Comprendo l’intenzione, ma non trovo accettabile augurare un soffocamento da neve, anche se per pochi minuti, a chi oggi vorrebbe sciare. Per noi che scriviamo di montagna e la frequentiamo, in inverno il fine giornata è un bollettino di morte di esseri umani (ricordo che gli sciatori non sono una specie a sé) che hanno smesso di respirare perché le loro vie si sono riempite di neve a causa di una valanga. Spesso sono nomi senza un volto, ma con una famiglia a casa, altre volte sono amici. Fortunatamente, succede che arrivino prima i soccorsi, sebbene per un soffocamento da neve i minuti sono davvero pochi per intervenire, e le vite si salvano. Sono gli uomini e le donne del soccorso alpino, aiutati spesso dalle unità cinofile altamente addestrate (e non da san bernardo con la fiaschetta al collo). Volontari (non smetterò mai di ricordarlo) che hanno deciso di mettere a rischio la loro vita per aiutare chi ha la medesima loro passione: la montagna.

Da bergamasca non dimentico i camion dei morti portati via dal cimitero della mia città; le sirene costanti delle ambulanze che trasportavano i malati al pronto soccorso o all’ospedale da campo e nemmeno la pena che provavo per i tanti attorno a me che perdevano i propri cari. Da montanara non dimentico le valanghe che hanno portato via tanti uomini e donne, senza fare distinzione di età, professione, esperienza.

Sono tutte vite spezzate, accomunate dal fiato che si interrompe, certo, ma anche dalla tragedia e dal profondo dolore e meritano rispetto.

Perché dobbiamo parlare anche di sci

Il secondo punto, come dicevo, riguarda la modalità con cui si sta affrontando il dibattito sullo sci.

Bisogna dire una volta per tutte che la questione non riguarda il turismo del lusso. Si sta invece discutendo di turismo della montagna in un Paese che è fatto per un terzo di montagne.

Affrontare l’argomento, cosa che stanno facendo tutti i Paesi alpini, è importante e non si capisce perché sia sacrosanto discutere dei problemi del turismo marittimo (ci hanno esasperato questa primavera con i plexiglass sulle spiagge), ma è uno scandalo se si alza il dito per parlare di quello montano.

La montagna non è frequentata come la narrazione di questi giorni vuol farci credere da sole élite con la smania di sciare. E anzi, fa davvero sorridere amaramente questa visione delle terre alte, che in realtà sono abbandonate a se stesse da decenni dall’incuria e dalla disattenzione politica. Impoverite di servizi e persone. Certo, ci sono realtà più felici, come possono essere ad esempio Cortina, Madonna di Campiglio, Courmayeur, ma anche questi sono luoghi che vivono solo di turismo, principalmente in inverno. Togli alle località turistiche montane la stagione invernale, togli molto. Parliamo di migliaia di famiglie che si ritrovano senza lavoro, in territori in cui spesso è già complicato sopravvivere normalmente.

Bisogna quindi tenere aperte le piste da sci con una pandemia in corso? No. Lo decideranno gli esperti del comitato scientifico, i più titolati a farlo grazie alle loro competenze e conoscenze. È essenziale però che se ne parli, per fare emergere una realtà in difficoltà e aiutarla in modo serio. Lo si fa per i lavoratori dello spettacolo (che non sono i grandi cantanti, ma le piccole maestranze), per i benzinai, per i tour operator, per i tantissimi in difficoltà. Lo si deve fare anche per la montagna.

Un turismo da cambiare, ma non oggi

Mi si verrà a dire che il turismo invernale non è solo quello degli impianti chiusi. Vero. Il problema ha radici più profonde che affondano nella difficile terra della montagna, non a caso le coltivazioni che vengono fatte in quota sono definite “eroiche”. Miope è sostenere che il futuro che abbiamo davanti è quello dello sci di pista, che è una tipologia di turismo non più sostenibile e destinata in gran parte a morire a causa dei cambiamenti climatici.

Ma bisogna essere anche concreti, soprattutto in un periodo in cui la questione è avere i soldi per sfamare la propria famiglia. Per questo, non possiamo far finta che, con poca lungimiranza di tutti (perché quest’anno è la pandemia, ma da anni non c’è più neve e sarà sempre peggio), oggi abbiamo un’economia del turismo montano invernale che è legata a filo doppio con lo sci di pista. Forse il Covid sarà lo scossone definitivo per far cambiare le cose, per spostarci verso offerte turistiche diverse più rispettose dell’ambiente e della montagna. Lo spero, ma non si può pretendere che questo cambiamento avvenga all’improvviso in una situazione di crisi e incertezza come quella attuale. Per ottenere questa transizione serviranno piani a lungo termine, che bilancino tutti gli interessi e sostengano le comunità e gli operatori economici. Una programmazione pensata, non improvvisata con il fiato corto dell’emergenza. Lo dobbiamo alla montagna e alla sua gente.

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