Alpinismo tradizionale e arrampicata estrema. Il rischio e lo sponsor
L’articolo “Nardi, Ballard, Lama, Auer e Roskelly: quale è il limite?” ha suscitato un’importante reazione, sia quantitativa che nel merito, alla questione. Una delle migliori cose che ho visto sul web. Credo che questo dibattito debba continuare arricchendosi di contributi e spero che possa essere un giorno riassunto in un incontro, in una pubblicazione, ma soprattutto che possa far breccia nel sentire degli alpinisti, quelli bravissimi e quelli meno, affinché la spinta alla ricerca di nuovi limiti assoluti o personali non sia contenuta, ma si accompagni all’evoluzione tecnica, alla conoscenza, alla sensibilità e agli strumenti che possano mitigare le conseguenze dell’aumento dei pericoli e rischi relativi. Non è questo che accade normalmente? L’automobilismo si è evoluto, come ha scritto qualche nostro lettore, la velocità è aumentata e potenzialmente con essa il rischio, ma la tecnologia e la conoscenza e preparazione individuale hanno posto un argine agli incidenti, soprattutto quelli mortali. Anche nell’arrampicata qualcosa di simile è accaduto proteggendosi, come in quella sportiva, e affrontando le difficoltà estreme con attenzione maniacale, ripetitività, fino a raggiungere la quasi totale sicurezza. Il film di Honnold “Free Solo”, che ha lasciato molti col fiato sospeso e nel panico, l’ho visto e vissuto così come il racconto della salita di El Capitan (sarò un emerito idiota) come un esercizio di assoluta consapevolezza e padronanza a rischio limitato.
C’è un ulteriore spunto che alcuni commenti mi hanno stimolato, quello che riguarda il rapporto con gli sponsor. Ha scritto Salvatore su Facebook: “Quando, l’alpinismo vive di sponsorizzazioni a molti zeri è inevitabile che questo venga spettacolarizzato, diventa strumento di marketing. Significa alzare continuamente l’asticella perché faccia notizia, la posta in gioco deve essere alta, il rischio elevato, altrimenti gli sponsor non pagano. Tutto questo incide nelle scelte e nei rischi che gli alpinisti son disposti a prendersi?”E ancora Antonio: “Nell’analisi manca un elemento fondamentale, il denaro. Non è una dimenticanza, ma una colpa di Da Polenza: mancano gli sponsor e il fatto che per avere soldi bisogna sollecitare sempre più la sete di sangue del pubblico. Come al Colosseo nell’antica Roma. Per questo muore la gente. Perché rischia sempre di più per trovare gli sponsor…”
Per attenuare la mia colpa ricorro alla mia esperienza, breve dal punto di vista alpinistico, ma lunga dal punto di vista dell’organizzatore di spedizioni alpinistiche, non commerciali per carità, e missioni scientifiche.
Negli anni ‘80 inventai insieme a Riuji Makita, un imprenditore della moda e dell’import/export tra Italia e Giappone, il progetto “Quota 8000” che prevedeva di abbinare alla salita degli Ottomila un progetto di marketing e il lancio di un brand. L’investimento era stato di parecchie centinaia di milioni di lire su tre anni, grazie ai quali avevamo salito i Gasherbrum I° e il II°, il K2, il Broad Peak e il Nanga Parbat. 5-6 alpinisti del team di Quota 8000 raggiunsero la vetta di tutte le montagne – per tutti ricordo Gianni Calcagno, Tullio Vidoni e Soro Dorotei (tra quelli che arrivarono sulla vetta di tutte le montagne, rigorosamente senza ossigeno) -. L’imperativo “contrattuale” per gli alpinisti, ospitati nelle spedizioni e alcuni rimborsati del tempo dedicato, era quello di evitare con cura ogni situazione di rischio che avesse potuto mettere a repentaglio la loro vita. Benoit Chamoux, che era diventato dei nostri, aveva persino stabilito il record salendo dal campo base alla vetta in 18 e 23 ore sul Broad Peak prima e sul K2 poi.
Dopo due anni, mi trovai a Parigi con Benoit che aveva trovato un super sponsor per continuare il progetto quota 8000. Si trattava di un colosso aziendale francese dell’informatica la Honeywell Bull. Di fronte a noi due poveri alpinisti erano schierati alcuni avvocati: ci vollero mesi per firmare le decine di pagine di un contratto che a fronte di un investimento nel progetto che si sarebbe chiamato “L’Esprit d’Equipe”, di due miliardi di lire di allora, ci chiedeva di proseguire le imprese precedenti su Annapurna, Everest, Cho Oyu, Shisha Pagma, Manaslu e Makalu. E queste montagne, meno l’Everest, furono salite da alpinisti, questa volta stipendiati (credo sia stata l’unica volta nella storia dell’alpinismo) ai quali veniva garantita tutta la logistica e la relativa comunicazione. Anche in quel caso l’imperativo contrattuale che ci imposero fu che di fronte a una scelta che avrebbe comportato l’assunzione di rischi eccezionali avremmo rinunciato in favore della sicurezza. L’azienda avrebbe interrotto il contratto in ogni momento se avesse, a sua assoluta discrezione, deciso che si rischiava troppo.
La questione sicurezza e immagine, oggi diciamo Brand Safety, richiesta dalle aziende mi si è presentata di nuovo in occasione della spedizione commemorativa del 50° anniversario del K2. Quella volta le spedizioni “quasi congiunte” erano 3. Una sull’Everest da Nord, una sul K2 da Sud e un’altra in contemporanea sul K2 da Nord. C’erano alpinisti formidabili come Karl Unterkircher, Gnaro Mondinelli, Giuliano De Marchi, Mario Panzeri, Nives Meroi e Romano Benet, Marco Confortola e altri ancora, bravi, fino all’incredibile numero di 33. Furono saliti splendidamente l’Everest con obbiettivi scientifici d’alto livello, il K2 dal versante sud lungo lo Sperone degli Abruzzi, mancò la salita del K2 da Nord. Ma ancora una volta alcune aziende e soprattutto i loro uffici pubblicitari ci imposero la non assunzione di rischi oltre quelli prevedibili.
Non fu diverso per lo sponsor che trovai per la spedizione al K2 del 2014 che consentì a un gruppo di bravissimi alpinisti pakistani di organizzare la prima spedizione pakistana sulla “loro” montagna” e di raggiungerne la vetta, insieme a Michele Cucchi. Lo sponsor non volle essere citato finché tutti gli alpinisti non fossero in sicurezza, almeno a campo 4.
Questa la mia esperienza. Se qualche alpinista ci racconta di pressioni da parte degli sponsor, circostanziando i fatti, come ho scritto all’inizio di questo approfondimento, sarà gradito e utile a questa riflessione collettiva e molto seguita che riguarda l’alpinismo, ma anche la vita degli alpinisti.
Il senso del limite si e’spostato molto in alto in zona dai margini indefiniti..non solo nell’alpinismo.Anche in comuni attivita’ lavorative , chiedono sempre di piu’, specie se c’e’un marchio o logo aziendale da tenere alto nei like.
La risposta di Da Polenza mi sembra quantomeno parziale. Gli sponsor li pagavano per fare 14 ottomila senza ossigeno e non 14 salite in Appennino. E oggi quel obiettivo non avrebbe sponsor, servirebbe “qualcosa di più”. Basta seguire l’evoluzione dell’alpinismo dagli anni ottanta a oggi per cogliere questo aspetto, che si aggiunge all’esperienza vissuta da Da Polenza, senz’altro reale. La biografia su Alison Heargreves è molto “forte” da questo punto di vista, mi aveva molto colpito.
Secondo me l’unica spedizione che permette di rispettare un contratto che impone di “evitare con cura ogni situazione di rischio” consiste nel raggiungere il campo base del K2 fare un selfie e tornare subito a casa. Su quella montagna la probabilità di morire è più di uno su tre. Facendo i conti, in una spedizione da tre alpinisti le probabilità che almeno uno muoia sono circa il 70%.
Come si fa a dire che una spedizione deve evitare ogni situaizone di rischio se parte già con il 70% di probabilità di avere un incidente?
Gli sponsor mettono queste clausole legali per proteggere loro stessi ma sotto banco spronano gli alpinisti a rischiare la morte.
Gli sponsor pagano gente per rischiare la morte però poi si puliscono da ogni responsabilità con gli Azzeccagarbugli o addirittura saltando sul carro del vincitore solo se la spedizione ha successo.
Voi vedete troppi film e troppe partite di calcio! Parlate di persona con gli alpinisti sponsorizzati e capirete che esiste ancora un etica da parte delle aziende sponsor in questo mondo che non chiedono nulla ma sposano il progetto e il solo provarci.
Se poi vogliamo ragionare per assurdo o in senso molto pratico direbbe qualcuno, se non torni indietro a raccontare cosa hai fatto con serate, proiezioni, articoli e interviste sulle riviste o con post sui social l’ azienda ha perso il suo investimento…
Naturalmente se uno rischia di più e raggiunge obbiettivi importanti diventa più interessante alle aziende perchè di successo, ma questo è un discorso diverso, ad un certo livello si è sempre sul filo del rasoio ma questo lo si decide per scelta, non per soldi
A mio avviso non si tratta di particolari pressioni da parte degli sponsor, bensì della speranza o auspicio o ambizione da parte dei giovani alpinisti (i migliori, i più promettenti) di poter fare l’exploit in montagna e poter così campare di alpinismo, sponsorizzazioni, conferenze, ecc. Intendo dire che la pressione maggiore viene da dentro di noi; poi dagli sponsor…
Trovo molto interessante questa sua testimonianza, ritengo che riequilibri correttamente una vulgata più ‘tagliata con l’accetta’ di certo avventurismo commerciale, come si legge ad esempio nelle famose pagine di Krakauer (avventurismo che pure esiste ma probabilmente non per spedizioni del livello che menziona lei). Mi piacerebbe approfondire alcuni spunti tra cui (1) se ed entro quali limiti l’alpinismo sia da ritenersi una pratica propriamente sportiva (2) se davvero oggi si corrano complessivamente più rischi di ieri o dell’altroieri (3) quanto questa tanto sbandierata ‘inutilità’ dell’atto alpinistico – citata ora con disprezzo ora con orgoglio – renda così davvero diversa la pratica montanara rispetto a tante altre azioni umane. All’inizio, si propende sempre per risposte secche e manichee, poi passano gli anni e si tende a smussare il giudizio 🙂
E’ molto interessante e rincuorante questo approfondimento di Da Polenza, io penso che se fossi uno sponsor non vorrei legare il mio nome ad una tragedia dovuta a pericoli evitabili o ad una non ottimale organizzazione ed un errato calcolo del rischio, del resto chi lo farebbe?
In genere è il pubblico che cerca il sangue ed il gesto estremo nel senso più tragico del termine, è quella corrente di pensiero subdola, prevalgono sempre i pensieri negativi, i misteri e le calunnie.
Se un gruppo di Alpinisti raggiunge la vetta del Nanga in invernale, non si è capaci di dire “oh che bravi, evviva”, anzi, al contrario inizia il circo delle polemiche: “eh ma non ha usato le sue corde” “Eh ma quello non doveva esserci” “L’altro è stato cacciato perché…” “Quello è una prima donna e vuole arrivare per primo” “Una l’hanno lasciata per strada”.
E’ successo con Messner sul Nanga (30 anni per avere ragione), con Bonatti sul K2 (40 anni per avere ragione), con la tragedia dell’Everest del 96 (e tutto lo strascico che il libro di Krakauer ha portato, soprattutto a Boukreev) e in mille altri episodi.
Forse è il pubblico che (anche inconsciamente) vuole il litigio, il malaffare, il sangue e la morte, poi da la colpa agli sponsor quasi come fossero loro a obbligare gli alpinisti a salire sugli 8000 (e non gli alpinisti che cercano sponsor per realizzare i loro progetti).
Se poi diciamo che uno sponsor caccia il grano solo per le vette oltre gli 8000 allora è un altro discorso e dobbiamo prenderci tutti una camomilla.
Concludendo dico che secondo me chi pensa che lassù comandano solo i soldi degli sponsor, rifletta sul fatto che c’è chi magari fa il dentista o il dottore, può permettersi di fare una bella vacanza in alta quota, paga fior di quattrini per farsi la vetta della vita e magari muore al campo base.