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Nardi, Ballard, Lama, Auer e Roskelly: quale è il limite?

Agostino da Polenza, dopo la recente scomparsa dei tre alpinisti David Lama, Hansjörg Auer e Jess Roskelly, che ha seguito quella di Daniele Nardi e Tom Ballard, ci ha affidato una riflessione di questi giorni sull’alpinismo.

Ve la proponiamo, chiedendovi di condividere con noi i vostri pensieri a riguardo di un tema delicato e, forse, scomodo per tutti noi che frequentiamo le montagne.

 

di Agostino Da Polenza

 

Daniele Nardi con Tom Ballard “sognano” di salire d’inverno lo Sperone Mummery. Grande via sulla parete Diamir del Nanga Parbat, “sognata” da Mummery nel 1895: un ideale estetico alpinistico. Tra il 24 e il 25 febbraio scorso, per una serie di circostanze oggettive – come freddo e vento – e soggettive – quali stanchezza, ipotermia, ritardata decisione di scendere – muoiono.

La reazione di una parte del mondo dell’alta quota e alto livello alpinistico, soprattutto italiano, è stata: sogni troppo ambiziosi, pericolosi, irrealizzabili, al limite del suicidio.

Pochi giorni fa una terribile notizia arriva dalle montagne canadesi: David Lama, Hansjörg Auer e Jess Roskelly impegnati sullo Howse Peak (3295 metri), nel Parco nazionale di Banff, muoiono travolti da una valanga. I soccorritori vengono allertati dal padre di Jess, ottimo alpinista, e dall’elicottero vedono numerose valanghe scoprendo un corpo.

Per gli alpinisti di tutto il mondo, bravissimi e meno, questa volta il sogno alpinistico dei tre fuori classe è legittimo, i loro valori da imitare, i loro insegnamenti da portare avanti. Eroi dell’ideale alpinistico immolatisi sull’altare della passione e ambizione, guidata dalla lungimiranza per la tutela della propria sicurezza. Ma che il fato, infame e baro (la natura, suppongo) e che ci ha messo lo zampino, ha trasformato in catastrofe.

Sarà, ma evidentemente son stati usati due pesi e due misure.

E se la misura che più piace all’establishment dell’alpinismo è la seconda, vengono spontanee delle altre considerazioni.

Ora, tutti o quasi, iniziando a praticare le scalate e l’alpinismo abbiamo letto o ascoltato che esistono pericoli oggettivi e soggettivi. Era scritto sul mio primo manuale di arrampicata, più di 50 anni fa. Alex Honnold su El Capitan sfida l’ennesima potenza dei rischi soggettivi. Ne ha e trova modo di averne il controllo totale e vive. Gli fosse scappato un appoggio, come ha mostrato da legato, sarebbe precipitato. Morto (e non avrebbe, o forse si, vinto l’Oscar). A parecchi climber che abbiamo conosciuto e che ci sono stati amici è accaduto. Ma certo ciò che succede in questi casi è e rimane una questione e una responsabilità che dipende al 95 % dall’individuo. Caduta e morte compresa.

Molto diversa la questione dei rischi oggettivi, che si assommano a quelli soggettivi: frane, sassi, blocchi di ghiaccio, valanghe, meteo. Tutti questi elementi sono in buona misura imponderabili, ma non del tutto imprevedibili. La super preparazione atletica e psicologica, messa in campo per affrontare i rischi dell’arrampicata più estrema, viene affiancata o nella parte più estrema sostituita, dalla necessaria super conoscenza dell’ambiente naturale, dei segnali di pericolo che l’estrema lucidità e sensibilità degli alpinisti percepisce e elabora, razionalizza e trasforma, talvolta, nel messaggio: “Molla e torna a casa”.

Per Nardi il messaggio era scattato, ma forse con 6 ore di ritardo.Per i tre fuoriclasse Lama, Auer e Roskelly non sappiamo. Ma la dichiarazione del genitore, esperto alpinista, sulla presenza di molte valanghe, qualche dubbio lo lascia sulla percezione o sottovalutazione da parte dei tre del messaggio di pericolo.

Tutti gli alpinisti bravi e bravissimi, almeno una volta nella vita, si son presi il rischio di rimetterci la vita. Qualcuno la chiama “pelle”, ma a me pare qualcosa in più. E nessuno che io ricordi (ma forse sono i danni al mio cervello, causati dalla mia breve ma intensa attività alpinistica in alta quota, a limitare la mia memoria) dopo averla scampata -e magari aver “lasciato sul terreno” un amico o anche “solo” le dita dei piedi o delle mani- si è chiesto pubblicamente o criticamente: “Ne valeva la pena?”.

Certo qualche balbettio s’è nel tempo registrato tra i campioni d’alpinismo, ma quasi tutti, bravi e meno, si son piuttosto profusi in giustificazioni, autoassoluzioni, precedute da glorificazioni della passione alpinistica, dell’adrenalinica azione, dall’auto-gratificante e irrinunciabile libertà assoluta dell’agire sulle montagne. E la “vittima” di turno viene assurta a martire, agnello sacrificale, di un ideale molto, molto più grande: ma lo scopo finale non è la liberazione di un popolo, la difesa dei diritti di un’etnia, di professare una religione: trattasi “solo” di alpinismo. Alpinismo!

Di sport, certo particolare, condito con aneliti ambientali, culturali e forse estetici, spirituali, libertari e individualisti (non che gli altri sport ne siano totalmente privi, come con una certa supponenza ho il dubbio che pensino gli alpinisti).

Un sospetto pentimento per l’esercizio estremo del proprio egoismo nei confronti di chi rimane a casa, spesso nella disperazione, o un rimorso autocritico appare in privato e mai in pubblico, come se aleggiasse la paura dello stigma della debolezza individuale e collettiva. Ma la supponenza diventa spregiudicata quando si pensa, o si lascia intendere con arzigogoli di parole, che come per i martiri antichi e recenti o i liberatori dalle dittature questi morti d’alpinismo sono esemplari, nobili, inevitabili, da imitare.

Ma stiamo parlando “solo”, lo dico con il massimo del rispetto, di alpinisti e alpinismo.

Gnaro Mondinelli, che ho sentito un paio di settimane fa, mi ha detto: “Ago, ne ho contati 58 di amici-amici, morti di montagna”. Se mi metto a contare i miei la tragica e triste conta si ripete. Stiamo parlando di alpinismo, non di guerra in Siria o in qualche tormentato angolo d’Africa.

Ed anche Messner, dopo aver riflettuto per anni attorno all’“Assassinio dell’Impossibile”, ha rilasciato interviste dove si dice preoccupato che l’alpinismo tradizionale ai più alti livelli “è follemente pericoloso” che“non è una questione di capacità ma di fortuna e sfortuna” e ricordando che “metà dei migliori alpinisti mondiali muore”, di alpinismo. Aggiungendo: “Questo tipo di alpinismo è affascinante ma anche difficilmente giustificabile”.

Vale forse la pena di rifletterci e di ragionare sulla nostra capacità o possibilità di controllo dei pericoli oggettivi, soprattutto quando il naturale anelito alla scoperta, al misurarsi con i nostri attuali e prossimi limiti oggettivi, naturali, ci spinge avanti, sempre oltre. Il rischio ultimo ed estremo, inaccettabile, è quello dell’estinzione precoce degli alpinisti migliori e comunque di troppi di loro.

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