La penna di Enrico Martinet non necessita certo di molte presentazioni, da trent’anni scrive per La Stampa di montagna, di alpinismo e di Ottomila. Anche quest’anno ha seguito, sulle pagine cartacee e su quelle digitali dello storico quotidiano, con criterio e giudizio le vicende che hanno riguardato il nono Ottomila, il Nanga Parbat. Una storia che ha scosso i sentimenti di molti, che ha spinto alpinisti e non a dare giudizi sulle decisioni di Daniele e Tom. Sono stati fatti tanti commenti sull’accaduto in queste settimane, per questo forse Enrico ha deciso di scrivere per La Stampa un articolo dal titolo“Quando la paura di morire in vetta spinge a rinunciare”, uscito domenica 17 marzo, che qui vi riportiamo nella sua interezza.
Vittime di quell’ignoto cercato, Daniele Nardi e Tom Ballard. Sulla montagna più grande del pianeta, nona per altezza ma immensa per perimetro e pareti dense di pericoli. E il Nanga Parbat, simbolo di ardimento, come si sarebbe detto fino a metà ’900, sa custodire le più ardue fantasie alpinistiche. La sciagura che ha avvolto Daniele e Tom ha fatto riaprire cassetti colmi di giudizi. Ne sono uscite sentenze e le parole chiave dell’alpinismo che non è solo pericoloso per l’ambiente, il mondo verticale di roccia e ghiaccio, ma anche per le sfide che l’uomo sceglie per superare i limiti.
Una delle parole rilanciata anche da alpinisti fuoriclasse, quali Reinhold Messner e Simone Moro, è rinuncia. È possibile che Daniele e Tom, entrambi consapevoli di quanto facevano, non avessero ravvisato alcunché per abbandonare l’impresa.
Ultima ratio
La rinuncia è abbinabile alla sfida. Le altre parole sono pericolo e rischio: paiono gemelle, ma il rischio ha in sé la volontà, l’altra no, esiste. Ancora un binomio, paura-morte. L’alpinista ci convive e sa che la paura lo fa ragionare, gli è amica, lo tiene distante dalla morte. L’alpinismo del professionismo è vita dedicata a scalare e ha come ombrello concettuale l’ignoto. Da affrontare e cercare di superare: soltanto così esiste evoluzione, il resto è ripetizione, variante.
Ecco perché la rinuncia è per l’alpinista l’ultima ratio. E, di solito, gli viene dettata da uno stato di forma non ottimale o da un pericolo oggettivo incombente, il maltempo, l’evidenza di cadute valanghe per abbondanti nevicate. La storia dell’alpinismo è costellata da rinunce di questo genere e da non rinunce che si affidavano a un rischio estremo. Una delle rinunce più famose in ordine di tempo è quella di Hervé Barmasse, che giunto a tre metri dalla cima dello Shisha Pangma, ha pensato «qui muoio» e si è fermato, non arrivando in vetta. Il pericolo era una cornice non evitabile che non avrebbe retto il peso di un pulcino.
Ciò che ha fatto Ueli Steck nel 2013 è inaggettivabile. Lontano dalla logica. Fu lui stesso a confessarlo. Tanto che si fermò per un anno: «Qualcosa in me non va, devo fermarmi». Aveva in 28 ore salito da solo la spaventosa parete Sud dell’Annapurna. Raccontò di essere uscito dal proprio corpo, di essersi visto arrampicare e di aver così deciso di continuare «perché stavo bene». Ovvio che non fosse così. Ueli è morto nel 2017 sul Nuptse: stava salendo veloce, come al solito, solo e non assicurato. Neppure Alex Honnold, protagonista di «Free solo», documentario che ha vinto l’Oscar a Hollywood, non ha rinunciato a salire i quasi mille metri di una via sul El Capitan, nello Yosemite, senza alcun tipo di assicurazione: mani nude e scarpette, né corda, né chiodi. Eppure era caduto, per fortuna dopo neanche dieci metri dall’avvio. Era il suo ignoto, non ha rinunciato.
Gli esempi
Che dire di Walter Bonatti, uno fra i più grandi di tutti i tempi? Nel 1955, con addosso la delusione per il K2, si trasferisce fra i graniti del Monte Bianco e vede quel pilastro nudo, di bellezza straordinaria, sul Petit Dru, versante Chamonix. Ci va da solo e per superare ciò che ha ritenuto impossibile si è immaginato un pendolo per finire su placche fessurate e arrampicabili. E fa un nodo con cordini, lo lancia per dieci volte in alto finché finisce in una fessura. Regge. Si lancia nel pendolo e diventa un mito.
Fosse caduto quale sarebbe stata la sentenza? Tutti coloro che hanno spostato il limite dell’alpinismo hanno accettato la sfida estrema. Proprio sul Nanga Parbat morì Frederick Mummery (ha ispirato Daniele Nardi), pioniere dell’himalaysmo. Hermann Buhl, il primo a raggiungerne la vetta, restò solo, affrontò l’ignoto in 1.200 metri in solitaria, ingollò una pastiglia di anfetamina calcolandone il tempo di efficacia. E dormì in piedi contro la roccia a 8000 metri. Tornò al campo base, i suoi compagni lo credevano morto. Reinhold Messner con il fratello Günther fece tre imprese in una: l’inviolata parete Rupal, la prima attraversata della montagna con la prima discesa nella sconosciuta parete Diamir, dove Günther fu inghiottito da una valanga.
Vorrei ringraziare Enrico Martinet per il suo spunto, e la vostra Redazione per averlo rilanciato. Si tratta di riflessioni quanto mai utili.
L’indole umana riserva sempre sorprese: tutti pronti a osannare chi riesce, tutti pronti a criticare la stessa persona, se non riesce.
Vorrei dire, a bassa voce, nel silenzio che dovrebbe avvolgere un dramma come quello di Ballard e Nardi, una sola cosa: quando Reinhold Messner scalava in Dolomiti con il suo stile rigoroso, spesso slegato, lasciando a bocca aperta il mondo parruccone dell’alpinismo di quegli anni, molti lo criticarono aspramente, definendolo senza mezzi termini un pazzo suicida, un esempio negativo per tutti, che non sarebbe certamente invecchiato: sentirlo dire oggi le stesse cose (ma non tema, è in ottima compagnia) riguardo a chi ha seguito i propri sogni, fa un po’ male e dà la misura di quanto la vita possa cambiare le persone.
Se i tanti Bonatti della storia dell’alpinismo non fossero tornati dai loro Dru… forse oggi non sarebbero ricordati con affetto e rispetto, ma sarebbero stati rapidamente derubricati a matti da dimenticare in fretta.
In un tempo in cui la comunicazione ha velocità e capillarità mai viste, posso perfettamente comprendere che chi vive di montagna e della propria reputazione non desideri che l’alpinismo risulti essere un’attività troppo pericolosa agli occhi della pubblica opinione. Però… se i fratelli Messner non fossero scesi dal Nanga Parbat, se fossero rimasti lassù, chissà dove, chissà come… due potenziali suicidi in meno? due suicidi in più? Lasciamo perdere.
Non dimentichiamo che, al di là della bravura e dell’esperienza, in un certo tipo di alpinismo il “fattore C” a volte è determinante, cosa che Bonatti sapeva, Messner pure, penso anche Nardi e Ballard.
Messner adesso dice che lo sperone Mummery è da evitare per la sua pericolosità, un po’ come la cornice evitata da Barmasse. Un conto è lo spingere l’alpinismo oltre, come lui e Bonatti hanno fatto in passato accettandone rischi “calcolati”, e un conto è, consapevolmente o no, giocare alla roulette russa. Nel 1970 i Messner scesero dal Mummery in situazione di emergenza, scegliendo la discesa più diretta e veloce. Nel 1978 a Reinhold non venne neanche in mente di salire dal Mummery . Quindi, anche se negli ultimi anni qualche sciocchezza gli è scappata di bocca come normale, in questo caso attaccarlo significa non aver capito che il Mummery non è solo difficoltà tecnica ma anche pericolo spinto a livelli assurdi da accettare, come quanto dichiarato da molti competenti (Messner incluso).
“…I tanti Bonatti della Storia…”.
Caro amico, di Bonatti ce n’è uno solo.
Del resto che lei scrive, taccio.
Ah, no…non posso tacere!
“…se i fratelli Messner non fossero scesi dal Nanga Parbat…”
Ma di cosa parla?? Lei non sa neanche che ne è sceso uno solo!!
Ci sarebbe da ridere a crepapelle, se non mi venisse da piangere.
E pensare che più di una persona in questa pagina fa i complimenti anche a lei, oltre che a quel genio di Martinet.
Avanti il prossimo.
L’olocausto non è mai avvenuto.
La terra è piatta.
Sono commenti riferiti all’intervento del signor Vincenzo Brancadoro.
Il fatto è che nell’alpinismo, come in altre cose, tanto è già stato realizzato. Quindi si cerca di spostare sempre l’asticella più in alto … purtroppo era difficilissimo riuscire nella loro impresa.
Secondo me certi paragoni non hanno senso.
Poi la storia non si fa con i se e con i ma….
Ma secondo voi, Daniele Nardi è stato un talento dell’alpinismo ?
@Dani
Nè I Messner né Bonatti avevano scelta. Quanto al povero Nardi, secondo me non è neanche questione di talento. Non sta a noi giudicare. Erano sicuramente entrambi molto forti. Di Ballard si conoscono degli exploit notevoli sulle Alpi. Qui è semmai una questione di buon senso. Secondo me Nardi, così come Tomek Mackiewicz, si trovava anche lui di fronte ad una scelta obbligata. Una scelta dettata, però, non dalla contingenza dei fatti, come per Bonatti e Messner, ma da ciò che sentiva dentro. Una forza invincibile che lo trascinava verso quella montagna, verso quella via. Essi erano stregati. Letteralmente. Era già da qualche anno che sul quel versante tirava una brutta aria (in senso alpinistico, intendo). I filmati degli anni scorsi mi era parso che presagissero qualcosa, ancor prima della scomparsa di Tomek ed il clamoroso salvataggio di Elisabeth.
Lei ha visto il video di Daniele prima della partenza? Il tempo sembra davvero minaccioso, lui lo sa bene e lo si capisce. Ma DEVE andare. Anche per lui il Nanga è la montagna del destino.
Gentile Redazione,
fino a stamattina ero convinto che i detrattori di Bonatti e Messner fossero ormai tutti morti. Se non fisicamente, almeno da un punto di vista morale, ma soprattutto storico.
E invece ecco che all’improvviso mi costringete a ricredermi.
Può anche darsi che la penna del nostro autore non necessiti di presentazioni, mi fido di voi. Il suo articolo, viceversa, è una ricca raccolta di corbellerie. Non sto qui ad elencarle tutte, ma ne voglio sottolineare due, uguali e scoppiettanti.
1.
Bonatti si lancia nell’ignoto, gli dice culo e diventa un mito. Dopodiché abbandona l’alpinismo per non rischiare più e godersi la fama per tutta la vita. Tutto qui questo Walter.
Poteva chiamare un elicottero col cellulare e farsi venire a prendere, cosa gli costava. Il cellulare era scarico? Poteva fare una doppia con le stringhe delle scarpe, che cavolo.
Certo non sarebbe divenuto famoso. Gli sarebbe mancato il coraggio di provarci ancora, di cimentarsi, chessò, sul GIV (magari su una via che nessuno avrebbe mai ripetuto), sulla Nord del Cervino in prima solitaria invernale, nel salvataggio di due compagni dal Pilone Centrale, nella prima sulla Whymper, o sul Pilier d’Agle, e tante altre imprese e spedizioni extra-europee, difficili da elencare.
Imprese straordinarie, che però egli immaginò soltanto, appagato da quel pendolo da circo.
2.
I fratelli Messner, questi anarchici scavezzacollo, che facendosi un baffo degli ordini del Dott. Herrligkoffer, decidono di compiere in gran segreto la traversata. Sì, perché erano ancora belli freschi e un bello scivolaculo verso la valle del Diamir sarebbe stato elettrizzante. Poi, Reinhold, rimasto solo ha pensato di continuare verso il basso (la traversata si doveva compiere a tutti i costi, giusto signori detrattori di Italia, Austria e Germania?).
Dopo quei fatti (in realtà anche prima), Reinhold ha fatto tante cose, ed ogni cosa che ha fatto, ogni singola cosa, è stato il primo a farla. Sia chiaro, ha giocato alla roulette russa ogni volta, e ogni volta, come Bonatti sul Dru, è stato salvato dal “fattore C”. Che ci vuole sempre nella vita, giusto?
Sarcasmo a parte, al nostro autore e a al signor Brancadoro vorrei far notare per inciso che Reinhold e Walter avevano in quelle occasioni una sola alternativa. La morte.
Loro volevano vivere, salvare i propri compagni. A volte ci sono riusciti, a volte no. Chi non ricorda questi dettagli vada a rileggersi i libri di Storia, magari un libro di Messner (che guarda caso è anche il massimo esperto di Storia dell’Alpinismo).
Ciò che essi hanno realizzato nei loro destini paralleli non ha nulla a che vedere con il “fattore C”.
Basta leggere i loro curriculum. Loro non hanno mai giocato a dadi e a volte hanno rinunciato. Bonatti sull’Eiger, Messner sul Lhotse. Certo, per paura della morte. Ma anche per una virtù che appartiene a pochi: la consapevolezza dei propri mezzi e dei propri limiti. Limiti che hanno esplorato, mai valicato (non per propria scelta almeno!).
Essi sono stati e saranno sempre un esempio per molti, Hervé e Simone fra tutti, tanto per stare in casa nostra, ma anche Denis, Steve, Marko, Hansjorg. Aggiungerei anche Alex, consapevole come pochi delle proprie forze.
Ci sono uomini che si spingono sull’orlo del precipizio, per ammirare l’abisso, solo un attimo, e poi tornare indietro. Altri vogliono superarli quei limiti e, costi quel che costi, saranno certamente ricordati anche loro.
Massimo rispetto per persone come Ueli Steck o Thomaz Humar, coscienti di essere sì i più forti, ma anche dell’ineluttabilità del proprio destino. Loro andavano oltre e lo sapevano.
Massimo rispetto per i morti.
Tom Ballard e Daniele Nardi erano sicuramente dei bravi alpinisti, dei grandi sognatori e degli ottimi ragazzi.
Grazie per averci riportato le riflessioni, per nulla banali, di un grande autore quale è Martinet.
(Aggiungo anche i miei complimenti per il bellissimo commento qui sopra di Vicenzo)
Bellissimo articolo che finalmente ci voleva, lo affisserei su tutti i muri e condividerei a raffica sui social… E bravo Vincenzo, finalmente qualcuno di sensato… Che brutte cose si leggono e com’è piccolo a volte l’essere umano…
Concordo al 100 %
Complimenti per l’articolo, un analisi approfondita di alcuni avvenimenti alpinistici, anche se mi permetto di fare un osservazione.
Tutti gli aneddoti raccontati si riferiscono a situazioni contingenti che andavano risolte in quel momento, decisioni da prendere uniche, non ripetibili.
Non trovo corrispondenza con quanto accaduto sul Nanga Parbat, dove per ben 3 mesi si è sfidato la sorte, in un contesto di pericolo costante, non in un singolo momento contingente.
Faccio un esempio forse stupido, ma se al primo colpo di roulette russa fortunato ci si ferma è un conto, se invece si continua fino a trovare il colpo fatale il discorso è un altro.
Quello che non ho mai letto in tutti questi giorni e in tutti questi articoli sostanzialmente è questo: sfidare la sorte a lungo difficilmente porta ad epiloghi positivi.
Questo non vuol dire che critico o non sono d’accordo con le decisioni dei poveri Daniele e Tom, quanto piuttosto che gli avvenimenti andrebbero analizzati a 360° e non fermarsi all’analisi che fa comodo per giustificare una determinata teoria.
Daniele e Tom avevano un idea, e in quella hanno creduto ed insistito a prescindere, in questo non c’è niente di sbagliato. Milioni di persone in contesti diversi hanno fatto la stessa cosa.
Detto questo non sono neanche d’accordo con chi dice che questo Alpinismo non deve essere incentivato in quanto cattivo esempio per i nostri giovani.
Sono altri i cattivi esempi che questo secolo da ai giovani. La mamma di Tom, il suo papà, la sua fidanzata, la moglie di Daniele, i suoi famigliari, tutte queste persone hanno dato e danno un messaggio importante alle nuove generazioni: Credete nei vostri figli, mariti, compagni, lasciate fare loro quello in cui credono e in cui chi ti è vicino crede con te, dobbiamo creare nuove generazioni di Uomini e Donne, non di burattini alla mercee del nulla.
Concordo!
Che esempio hanno dato Tom e Daniele ai ragazzini (cosi’ come tutti ? Di credere in cio’ che fanno, punto! Non penso proprio che un dodicenne senza alcuna esperienza di montagna (ma anche con l’esperienza consona alla sua giocane eta’) avrebbe mai le velleita’ di scalare il K2 senza un vero percorso di formazione fisica, tecnica e mentale che lo porti, nel corso degli anni, a sviluppare le capacita’ per pensare di affrontarlo! E questo esempio quindi e’ negativo, mi chiedo?
Forse, nella societa’ contemporanea, si: e’ un esempio negativo. Meglio diffondere il verbo dei talent/reality, non si sa mai che si riesca a spillare qualche bella miglialata di euro senza fare una benemerita…
Eppoi, se Tom e Daniele vengono considerati folli, Kukuczka (uno dei piu’ forti di sempre!) era da rinchiudere e gettare le chiavi?
Condivido in toto la lucida analisi di Danilo Scipioni, togliendo solo una parentesi: Messner ha fatto molte cose PRIMA e DOPO quei fatti.
Autore e commentatori di questo articolo dovrebbero formulare un giudizio storico sugli alpinisti prescindendo dalle suggestioni e dalle emozioni legate alla morte di alcuni di loro, accidentale o meno che fosse.
Lo stesso Bonatti negli anni seguenti al suo ritiro dall’attività non è mai stato tenero nè obiettivo nei confronti delle generazioni successive di alpinisti, ma il valore suo e di personaggi come reinhold messner o vojtek kurtyka, per fare solo un altro esempio, rimangono indiscussi e imparagonabili ad altri, vivi o morti, che rimangono bravissimi alpinisti, ma che trovo davvero eccessivo consacrare quali protagonisti della storia dell’alpinismo.
Massimo rispetto per tutti: ciascuno è unico, perciò non lo si dovrebbe paragonare a nessuno. Da tutte le tragiche vicende di cui siamo stati partecipi spettatori emerge invece il richiamo misterioso del fato, come se questo avesse tessuto fin dal inizio la sua trama e ne attendesse solo il compimento. Questo richiamo è stato detto da molti “ossessione”, da altri è stato definito follia, da altri ancora incoscienza davanti a un pericolo mortale. Pochi si sono accorti come il compagno di Unterkircher, scampato al Nanga Parbat, abbia lungamente lottato prima di sentirsi pronto a riaffrontare l’identico destino che lo attendeva. Pochi si sono chiesti cosa abbiano cercato uomini come Humar o Lafaille, che non dovevano certo dimostrare nulla a nessuno, nell’ennesima fatale impresa se non il compimento del loro proprio destino. Il fato “chiama”. Le cause che hanno provocato la morte di Nardi e Ballard non sembrano essere state le slavine e i seracchi che avrebbero dovuto tenerli lontani dallo sperone, piuttosto la caduta accidentale di uno e la resa al gelo dell’altro. Senz’altro, per entrambi, l’incontro atteso dal fato si è compiuto nell’ora e nel luogo destinato: come, per il soldato in fuga dalla morte, a Samarcanda
Salve a tutti,
il destino ci aspetta anche sul muretto dietro casa se decidiamo di salirci a fare un giro. Schumacher ha corso per anni a 300 km/ora e un giorno ha deciso di andare a sciare con la famiglia… E Cristoforo Colombo sarebbe morto se non ci fosse stato quel continente a fermare la sua follia di arrivare in India…Le imprese sono tali perché si chiamano così…Col senno del poi siamo tutti bravi e ponderati…La vita è così. Nardi e Ballard erano consapevoli del rischio che correvano…ma volevano fare qualcosa di nuovo…Anche la più semplice alta via adesso è percorribile proprio perché qualcuno ha osato prima. Buona vita
Concordo col saggio Lù.
Spingere il limite sempre più in la va bene. Ma se parliamo di un limite umano.
Se parliamo di fortuna allora è un altro discorso.
Se Nardi avesse fatto l’impresa avremmo dovuto dire che è stato molto fortunato, e non lo è stato.
Mi domando: se invece fossero riusciti nella loro impresa? Oggi non si parlerebbe d’altro e sarebbero entrati a pieno diritto nell’Olimpo degli alpinisti. Il punto è che fino a quando esistono delle possibilità di riuscita, anche minime, ci sarà senz’altro qualcuno che tenterà l’impresa, come scommetto che prima o poi qualcuno riproverà ad aprire la via. Non sono neanche morti sepolti da una valanga, ma per un incidente, ancora da appurare e che probabilmente sarebbe potuto accadere anche in altre situazioni.
Buongiorno Redazione,
si reisce a togliere il refresh ogni 5 secondi della pagina che impedisce la lettura dei commenit?