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Paolo Cognetti: nel Dolpo ho ritrovato l’intimità dell’amicizia

Paolo Cognetti, premio Strega 2017 con il romanzo “Le otto montagne” è da poco tornato in libreria. Questa volta non è un romanzo, ma un racconto vero, vissuto, a tratti intimo in cui l’uomo si mette a nudo mostrando le sue debolezze e le sue fragilità al cospetto di una natura estrema, sorprendente, imponente. 20 giorni e 300 chilometri nell’Himalaya del Dolpo, un territorio nepalese ancora lontano dalle carovane turistiche che lo scrittore ha avuto occasione di visitare nel corso del 2017 per conto di Meridiani Montagne su cui, nel gennaio 2018, è apparso il reportage dell’esperienza.

 

Paolo, nel descrivere “Senza mai arrivare in cima” affermi che “parla di quel che cerchiamo quando andiamo in montagna”… cosa cerchiamo quando andiamo in montagna?

Ci ho messo un po’ per rispondere a questa domanda anzi, più che a rispondere ho impiegato molto tempo nella ricerca di risposte. Nel senso che anche chi frequenta la montagna da tutta la vita fa fatica a dirti cosa cerca. Cercare di capire cosa ci stiamo a fare lassù è uno dei misteri del frequentare le terre alte.

Per me c’è stato un momento mentre ci trovavamo al monastero di Shey Gompa, nel cuore di questo viaggio, in cui mi è sembrato di vedere una risposta alla domanda. È stato come un chiarimento dei pensieri, un’armonia con le cose che hai intorno. Uno stato di grazia che, a volte, riusciamo a raggiungere solo quando siamo in montagna e che poi perdiamo una volta tornati a valle. Una sensazione estremamente complessa da raccontare o descrivere. Si tratta di un qualcosa che non ha nulla a che vedere con la cima o con l’alpinismo ma forse solo con la fatica, con la solitudine o con il contatto con gli elementi al loro stato più puro. Una purezza che ho percepito molto forte durante questa esperienza, soprattutto con la quota. È come se salendo in alto tutto si purificasse intorno a te e dentro di te.

Dici anche che si tratta di un racconto d’amicizia…

Si, forse perché, in età adulta, mi sembra così raro sperimentare questo tipo di amicizia maschile che ho provato durante il trek. Una forte intimità che ci lasciamo alle spalle con l’adolescenza, quella cui eravamo abituati da ragazzini e che non proviamo più con la crescita. Quel tipo di rapporto che viene sostituito dalla solitudine della vita adulta. Era qualcosa di cui avevo già parlato ne “Le otto montagne”, ma quello era un romanzo mentre questa è un’esperienza di vita. Nel racconto la condivisione del viaggio con un paio di amici importanti è un aspetto cruciale.

Ci sono però stati di momenti in cui, nonostante fossi in gruppo, ti sei sentito solo?

Senz’altro. Tra l’altro credo sia una delle strane sensazioni che ti da la montagna: anche se cammini con gli altri, in un certo senso ti senti sempre come se camminassi da solo perché la fatica la provi tu, il mal di montagna lo provi tu, come anche l’esaltazione e l’euforia. Quella dell’andare in montagna è tutta una dimensione interiore che si può condividere, ma fino a un certo punto. Si può condividere attraverso uno sguardo e lo stare insieme, ma si tratta pur sempre di una condivisione parziale. Per questo, sorpattutto nei momenti di sofferenza ho anche sentito un grande senso di solitudine. Nonostante questo però mi sono accorto gli amici mi stavano vicini in una maniera discreta, erano attenti a me e c’era qualcuno che, senza che io me ne accorgessi, si prendeva cura di me.

Ci sono stati dei momenti di grande sofferenza in questo percorso…

Si. Io pur essendo un buon camminatore, nel senso che cammino molto abitando in montagna, ho avuto dei momenti in cui mi sono sentito veramente provato. Forse soffro più di altri l’alta quota o, forse, c’è quest’idea che appartiene al buddismo tibetano dove la montagna è ricca di spiriti. Guardiani che non sono né buoni, né cattivi ma fanno la guardia e spesso mettono alla prova chi passa. Lo fanno per vedere se ha al giusta convinzione, la giusta sincerità di cuore per attraversare le montagne. Così il mal di montagna mi sembrava una prova, un’occasione per dimostrare non tanto la forza ma la convinzione nel fare un viaggio del genere.

Come mai la decisione di donare una parte dei ricavati in beneficienza?

Tutto nasce dal fatto che quando si va in Nepal e magari si passa qualche giorno a Katmandu si incontrano altri italiani che vivono là. Un giorno, uno di questi, mi ha chiesto se volevo andare a vedere il lavoro che stanno portando avanti. Così mi sono ritrovato a parlare con ragazze che ti raccontano le loro esperienza drammatiche e che stanno provando a ricominciare, a rifarsi una vita.

Quando ascolti queste storie dopo aver provato l’esperienza del trek, un’esperienza così intensa d’amore per quei posti e poi ti confronti con il lato più drammatico della società non puoi fare altro che provare un forte sentimento di restituzione, se poi hai l’opportunità di farlo lo fai.

Con parte dei proventi del libro sostengo due associazioni. Una di valdostani, fondata dalle persone con cui vado in Nepal, che si chiama Sanonani House ed è un orfanotrofio per orfani e bambini vittima di violenza. L’altra è invece una strutta per donne vittima di violenza e si chiama CASANepal. Sono solo alcuni degli esempi di quel che fanno le persone per il Nepal. Nel senso che ci sono tante realtà come queste che vogliono fare qualcosa per un Paese bellissimo ma poverissimo e con molti problemi sociali legati alla povertà dilagante.

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