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Grande Guerra, un centenario deludente – di Stefano Ardito

L’Italia, ancora una volta, ha dimostrato con non saper fare i conti con la storia. E’ questa l’unica lettura possibile, purtroppo, del centenario della Grande Guerra che si conclude il 4 novembre. 

Quel giorno, nel 1918, l’esercito dell’Austria-Ungheria deponeva le armi dopo la sconfitta sul Piave. Ventiquattr’ore prima, il 3 novembre, le truppe italiane erano entrate a Trento e a Trieste. Una settimana dopo, l’11 novembre, il cannone avrebbe taciuto anche tra Francia, Belgio e Germania. 

Adamello. uno dei cannoni austro-ungarici del Caré Alto

La Prima Guerra Mondiale, con i suoi nove milioni di morti in divisa, più altri sette milioni tra i civili, è stata una tragedia di dimensioni spaventose, che ha contribuito a plasmare l’Europa in cui viviamo. 

Sappiamo bene che gli anniversari ufficiali, come quello recente per i 150 anni dall’Unità d’Italia (1861-2011) diventano di rado occasioni per una riflessione storica seria. Per i cent’anni della Grande Guerra, però, la riflessione in Italia semplicemente non c’è stata. 

Quattro anni fa, le cose sembravano mettersi in maniera diversa. Nell’estate del 2014, a cent’anni dallo scoppio del conflitto in Europa (l’Italia è entrata in guerra nove mesi dopo) il presidente Giorgio Napolitano ha assistito a un concerto diretto da Riccardo Muti al Sacrario di Redipuglia, ai piedi del Carso, insieme ai suoi colleghi austriaco, croato e sloveno. Un gesto di fratellanza verso i nemici di un tempo.  

Qualche settimana più tardi, il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono abbracciati su quello che cent’anni prima era il Fronte occidentale, che ha visto morire milioni di giovani francesi e tedeschi. 

Poi papa Francesco, il pontefice argentino i cui antenati italiani hanno sofferto in trincea, ha celebrato una Messa solenne e ha esclamato “la guerra è una follia!” a Redipuglia. 

Moena, la mostra La Gran Vera

Dopo, però, è regnato il silenzio. I cent’anni trascorsi dalla follia della guerra sono stati ignorati dalla televisione pubblica e privata, dal cinema (tranne il piccolo e bellissimo Torneranno i prati di Ermanno Olmi, del 2014), dalla letteratura che pure, negli anni, ha dedicato pagine straordinarie al conflitto. 

Anche i grandi quotidiani nazionali, da Repubblica al Corriere, hanno fatto poco per aiutare gli italiani di oggi a capire i motivi e le conseguenze della guerra dei loro nonni e bisnonni. Anche nella scuola, un arcipelago variegato e complesso, non mi sembra che si sia fatto molto. 

Nessuno, in tre anni e mezzo, ha aiutato gli italiani di oggi a capire perché in Alto Adige vivono centinaia di migliaia di persone che hanno un passaporto italiano ma parlano come prima lingua il tedesco. 

Nessuno, fuori dalle zone interessate, ha ricordato che, mentre Cesare Battisti, Fabio Filzi e altri pochi irredentisti hanno scelto di indossare il grigioverde, spesso pagando con la vita la loro scelta, decine di migliaia di trentini, triestini e ampezzani hanno indossato la divisa di Francesco Giuseppe sentendosi dei leali cittadini. 

Cambiare i cartelli stradali, tranne che dopo la scomparsa di un dittatore efferato, non mi sembra un gesto importante. Mi sarebbe piaciuto, però, se a Milano o altrove si fosse seriamente discusso se mantenere viali e piazze dedicati a Cadorna. Un generale che gli storici hanno giudicato incapace, e che aveva un’insana passione per fucilare o decimare i soldati in grigioverde.     

Parco dello Stelvio, restauri sul Monte Scorluzzo

Quando l’ANA ha scelto di tenere la sua adunata del 2018 a Trento, sapeva di urtare la sensibilità di migliaia di discendenti di Kaiserjäger e Schützen trentini, ma ha deciso comunque per la città di Battisti. Celebrando così, invece di una memoria dolorosa e condivisa, il ricordo di una vittoria che per molti altoatesini e trentini è stata invece una sconfitta. 

Come accade spesso in Italia, le cose migliori sono state fatte sul territorio. Il Parco Nazionale dello Stelvio ha restaurato le postazioni e le trincee dello Scorluzzo, conteso da Kaiserjäger e alpini. Nei pressi del rifugio Casati, lombardi e altoatesini hanno restaurato i “Tre Cannoni” austro-ungarici, circondati dalla Vedretta del Cevedale. 

In Friuli, presso Malborghetto, sono stati aperti alle visite i resti del Forte di Hensel, al centro di scontri tra austriaci e francesi nel 1809, e di nuovo conteso dal 1915. A Cortina, orgogliosamente asburgica fino al 1918, varie mostre (tra queste Cortina e dintorni 1915-17 e La Grande Guerra e la carta) hanno raccontato a visitatori e residenti la memoria divisa del luogo. 

In Val di Pejo è stato restaurato il forte austro-ungarico di Barba di Fior. Tra il Cevedale e l’Adamello, gli archeologi della Provincia di Trento hanno recuperato dai ghiacciai che si ritirano altri corpi di caduti austro-ungarici e italiani. 

Valle di Pejo, il Forte Barbadifior

Uno di loro, l’alpino lombardo Rodolfo Beretta, ucciso da una valanga nel 1916, è stato salutato il 13 ottobre da una cerimonia a Trento, e poi sepolto nel suo paese, Besana Brianza. Sul Sass di Stria, a picco sui passi di Valparola e Falzarego, è stata inaugurata una nuova ferrata lungo i percorsi di guerra degli alpini.   

In Val di Fassa, Livio Defrancesco e l’associazione “Sul fronte dei ricordi” hanno restaurato le trincee italiane del Colifon e quelle austriache dei Fanch, e hanno tenuto in buone condizioni i sentieri di guerra della zona. A Moena la splendida mostra La Gran Vèra (“La Grande Guerra”) ha attirato decine di migliaia di visitatori, e nel 2019 diventerà un museo permanente. 

In piazza, non senza qualche polemica, è stata inaugurata la statua di un soldato della valle in ginocchio, mentre prega prima di partire per il fronte. Chi la guarda scopre che non è un alpino, un fante o un bersagliere italiano, ma un “nemico”, un soldato che veste la divisa austro-ungarica.

I nonni della gente di qui hanno combattuto in Galizia, per Francesco Giuseppe. La maggioranza dei turisti italiani non lo sa, e la statua, come la mostra, è stata l’occasione per spiegare” racconta Michele Simonetti, tra i promotori della mostra e della statua. Iniziative come queste, non soltanto a Moena, colmano il vuoto causato da un centenario sprecato. 

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