Alpinismo

Morire e vivere d’alpinismo

Quanto l’alpinismo sia vicino alla morte è noto agli alpinisti professionisti: guide alpine, atleti d’alta e bassa quota più o meno sponsorizzati. Se qualcuno non ha almeno un amico o un conoscente morto d’alpinismo alzi la mano.

È un modo brutale di affrontare la questione – perdonate! – ma francamente è questo che mi è venuto per la testa leggendo l’articolo che Messner ha affidato questa settimana alla “Gazzetta” commentato il drammatico episodio del suicidio di Hayden Kennedy dopo che la sua compagna Inge Perkins era morta sotto una valanga.

Messner rievoca il dramma della scomparsa del fratello Gunther avvenuta 47 anni fa, anch’esso sotto una valanga mentre scendevano dalla vetta del Nanga Parbat e lo strazio della lunga disperata ricerca. Tra le parole misurate e ancora intrise della propria disperazione, c’è tutta la pena di Messner per il bravo Kennedy e la sua compagna, ma si intuisce anche la forza della sua volontà di sopravvivenza quando si trascinò lungo la valle Diamir fino alle prime baite dei pastori locali che lo soccorsero. Fu il regista Herzog che ci raccontò dell’incontro di Messner con la madre e del rimorso per essere sopravvissuto al fratello. La montagna gli regalò un’altra vita e la possibilità di testimoniare e ricordare come ha fatto ancora una volta con quest’articolo.

Questa sera eravamo al telefono con il padre addolorato di un giovane ragazzo rimasto in Pakistan lo scorso anno, Leonardo Comelli, che ha voluto che la memoria fosse solidificata da un acquedotto realizzato in favore della popolazione locale che ha accolto le spoglie del figlio. Quest’uomo ci regalato le parole dello storico della prima guerra mondiale Antonio Scrimali: “I soldati non muoiono quando vengono sepolti, ma quando vengono dimenticati”.

 

Il pezzo di Messer sulla gazzetta: 

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