40 anni fa l’omicidio di Dian Fossey, la “signora dei gorilla”

La scienziata che ha vissuto con i gorilla è stata uccisa all’alba del 26 dicembre 1985 a Karisoke, in Rwanda. Il suo lavoro, insieme al film “Gorilla nella nebbia” con Sigourney Weaver e all’impegno del WWF ha contribuito alla salvezza di questi animali

“Negli ultimi tre anni, ho passato la maggioranza delle mie giornate con i gorilla selvaggi di montagna. La loro casa, e la mia, sono stati i ripidi e nebbiosi pendii della catena dei Virunga, otto imponenti vulcani – il più alto raggiunge i 4507 metri – sul confine di tre nazioni africane, il Rwanda, l’Uganda, e la Repubblica Democratica del Congo”.

Con queste parole, nel gennaio 1970, inizia un articolo pubblicato dal National Geographic Magazine e che s’intitola Making Friends With Mountain Gorillas, cioè Facendo amicizia con i gorilla di montagna. Fino a quel punto l’autrice, Dian Fossey, 38 anni, di San Francisco, è nota solo ai ricercatori che si occupano di grandi scimmie africane. L’autorevolezza del National Geographic, e i suoi 7 milioni di copie vendute negli USA e nel mondo (l’edizione italiana nascerà molto più tardi), insieme al fascino dei gorilla di montagna, la fanno conoscere in tutto il mondo.

“In questo periodo ho fatto conoscenza con molti gorilla, e loro con me. Percorrono i pendii delle montagne e i valichi in gruppi, e molti gruppi ora accettano la mia presenza quasi come se fossi una di loro” prosegue il racconto.
“Questa familiarità non è stata ottenuta facilmente. Ho cercato di avere la loro confidenza e curiosità comportandomi come un gorilla. Ho imitato il modo in cui si nutrono e si spulciano, e poi, quando sono stata più sicura del loro significato, ho copiato le loro vocalizzazioni, inclusi dei sorprendenti rutti profondi”.

Virunga: un grandioso ambiente montano

A rendere affascinante la storia dei gorilla, come quella di Dian Fossey, è l’ambiente dei vulcani Virunga. Rivestiti da impenetrabili foreste, culminano nel Karisimbi, 4507 metri, nel Mikeno (“il Cervino dell’Africa”), 4437 metri e nel Visoke, 3711 metri, il cui cratere spento è occupato da un lago.
Più bassi e più vicini a Goma, il capoluogo della regione congolese del Kivu, il Nyiragongo e il Nyamulagira – rispettivamente 3463 e 3062 metri – hanno più volte distrutto la città e i centri vicini con le loro eruzioni, rese celebri dai film e dagli scritti del vulcanologo Haroun Tazieff.

L’esplorazione alpinistica di queste cime inizia nel 1927 con re Alberto del Belgio, che tenta di salire il Mikeno. A raggiungerne la cima, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è il canadese Earl Denman, famoso per il suo tentativo all’Everest nel 1947. Poi Denman sale anche il Sabinyo, il “padre dai grandi denti” in lingua Kinyerwanda.

Il gorilla di montagna, Gorilla gorilla beringei per gli zoologi, viene scoperto nei primi anni del Novecento. Tra il 1959 e il 1962, lo studia per George Schaller, uno zoologo nato a Berlino, diventato statunitense nel dopoguerra, e che lavora anche sul leopardo delle nevi e sul panda. Abitua alcuni gorilla alla vicinanza dell’uomo, è il primo a lanciare un grido di allarme contro il bracconaggio che minaccia la sopravvivenza della specie.

Poi entra in scena Dian Fossey, spinta verso l’Africa dai libri e dalle conferenze di Schaller. Nel 1966, in Kenya, incontra Louis Leakey, un altro grande della conservazione della natura. E’ lui a suggerirle di avviare uno studio a lungo termine sui gorilla, analogo a quello che Jane Goodall ha iniziato sugli scimpanzé in Tanzania.

Grazie ai fondi del National Geographic, ottenuti grazie a Leakey, la Fossey inizia a lavorare sul versante congolese dei Virunga, ma dopo sei mesi deve fuggire a causa della guerra civile. Si sposta in Rwanda, e torna a lavorare ai piedi del Sabinyo e del Mikeno, a pochi chilometri dal confine.

Tredici anni nella foresta, poi il brutale assassinio

Per tredici anni, Dian vive e lavora nel centro di ricerca di Karisoke, nella foresta, trascorrendo lunghe giornate insieme ai suoi amati gorilla. Per avvicinarli ricorre alle tecniche apprese nel suo lavoro di terapista. Ad alcuni di loro dà nomi come Digit, Uncle Bert o Rafiki.  Nei primi scambi di lettere, i redattori della rivista americana la considerano poco più che una pazza, ma il loro atteggiamento cambia in fretta. L’articolo del 1970, citato all’inizio, fa di Dian un personaggio pubblico, che lascia Karisoke per conseguire un dottorato in Zoologia a Cambridge, o per tenere conferenze negli USA utili per finanziare il suo lavoro.

Il carattere difficile, e la sconfinata passione per i gorilla, fanno sì che la Fossey tratti male la gente del Rwanda, e attacchi pesantemente, in articoli e lettere al National Geographic, il Parco nazionale e i suoi ranger, che definisce “alcolisti mal vestiti, spaventati da tutto e che non ricevono gli stipendi dal governo per mesi, e invece si fanno pagare dai bracconieri”. Nel timore di un disturbo ai gorilla, la Fossey si oppone al turismo, creando risentimenti tra la gente.

La vita della scienziata cambia il 31 dicembre 1977 quando Digit, un grande maschio, leader dei uno dei gruppi e amatissimo da Dian, viene ucciso e mutilato dai bracconieri mentre cercava di difendere la sua famiglia. Fossey, sconvolta, fonda il Digit Fund per raccogliere fondi contro il bracconaggio (oggi Dian Fossey Gorilla Fund). Poco dopo, altri due gorilla vengono uccisi nello stesso modo.

Il lavoro sul campo continua, e lo stesso fanno le sue conferenze all’estero, ma il clima intorno alla zoologa è sempre più teso. Quarant’anni fa, all’alba del 26 dicembre 1985, viene ritrovata assassinata nella sua capanna, a pochi metri da un buco aperto nella parete. “E’ stata bastonata a morte, la sua faccia è stata tagliata in due da un colpo di machete”,  dichiarerà Wayne McGuire, l’ultimo assistente di Dian a Karisoke, che verrà condannato per omicidio, e poi graziato, dalle autorità del Rwanda.

Non si saprà mai se il delitto sia stato ispirato e perpetrato da bracconieri, da ex-ranger cacciati per volere della Fossey o da criminali arrivati dal Congo. Di certo la motivazione non è il furto, perché nel cottage restano il suo passaporto, alcune pistole e migliaia di dollari in contanti e in traveler’s checks.

Dopo la sua morte Dian Fossey, che viene sepolta a Karisoke accanto a Digit e ad altri gorilla, resta una figura controversa. Alcuni autori africani la dipingono come una colonialista alcoolizzata che fuma una sigaretta dopo l’altra. Nel resto del mondo, però, la zoologa assassinata diventa un mito. Il suo libro Gorillas in the Mist (Gorilla nella nebbia) diventa un best-seller, e ispira nel 1988 l’omonimo film di Michael Apted, in cui la scienziata è interpretata da Sigourney Weaver, celeberrima eroina di Alien.

Dopo l’assassinio di Dian Fossey, il “cuore nero” dell’Africa attraversa delle tragedie spaventose. Il genocidio del Rwanda (1994) viene preceduto e seguito dalle guerre civili del Congo, e ognuna di queste convulsioni spinge migliaia di profughi verso le foreste, con conseguente riduzione dell’habitat dei gorilla.

Nonostante tutto questo, anche grazie al sacrificio della zoologa americana, i gorilla di montagna sopravvivono. Secondo il WWF, si tratta di “un esempio di successo nella conservazione”, perché “la popolazione ha mostrato una crescita costante negli ultimi anni, e il numero di individui è salito da 254 nel 1981 ai 1063 nel 2019”.

“La strategia che si sta rivelando vincente si basa sul contrasto al bracconaggio grazie ad un monitoraggio quotidiano e ravvicinato degli individui da parte di ranger e biologi”, conclude il rapporto. L’altro strumento decisivo è il turismo, che porta fondi ai Parchi e alle popolazioni. Poche emozioni, in tutto il mondo, sono forti come l’apparizione improvvisa di un silverback, un grande maschio di gorilla, nella foresta dei vulcani Virunga.

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