Yalung Ri: cosa non ha funzionato e cosa si dovrebbe fare per velocizzare i soccorsi
“Assicuratevi, e lasciate a casa informazioni precise!” “I club alpini e i governi dovrebbero aiutare il Nepal a creare una centrale di soccorso”. Questi i suggerimenti di Agostino Da Polenza, che ha collaborato dall’Italia alle ricerche dei dispersi. Iniziate troppo tardi
Dei ramponi, un bastoncino, due guanti spaiati. Solo questo, nonostante due giorni di ricerche, è riemerso dalla valanga dello Yalung Ri, in Nepal, a 5500 metri di quota. Marco Di Marcello, Markus Kirchler, Jakob Schreiber, Mere Karki e Padam Tamang sono ancora lì sotto, e si spera che possano essere ritrovati in primavera.
Il team dei soccorritori nepalesi, intervenuto due giorni dopo la tragedia, era formato da quattro Sherpa molto esperti, tutti guide alpine UIAGM. Insieme a loro c’erano due guide europee, l’italiano Michele Cucchi e lo svizzero Bruno Jelk. Ai comandi di uno dei due elicotteri c’era un altro connazionale, Manuel Munari, pilota e titolare della società Avia Mea.
Quando il team è entrato in azione, però, la neve della valanga si era compattata per il gelo, e ha impedito di utilizzare con efficacia le sonde, mentre l’antenna Recco ha consentito di trovare solo i pochi oggetti che citavamo all’inizio. Sotto accusa, anche nei commenti da Kathmandu, il ritardo con cui sono iniziate le ricerche.
Ma si poteva fare di meglio? Ci aiuta a capirlo Agostino Da Polenza, bergamasco, alpinista himalayano di grandissima esperienza a suo agio nei rapporti con la burocrazia di Kathmandu e di Islamabad e con il nostro Ministero degli Esteri.
Nei giorni scorsi, alcuni quotidiani hanno riferito di un suo coinvolgimento nell’organizzare le ricerche sullo Yalung Ri. E’ vero?
Sì. Da tempo, quando accadono tragedie come questa, e gli amici e i parenti delle vittime non sanno dove sbattere la testa, alla fine è il mio telefono a squillare.
E’ andato a Kathmandu, nei giorni scorsi?
No, ho fatto tutto da Bergamo. Erano in Nepal, e hanno lavorato sullo Yalung Ri, due grandi professionisti, che sono anche degli amici, come Manuel Munari e Michele Cucchi. Il primo, titolare di Avia Mea, è un istruttore pilota che ha lavorato molto in Nepal. Il secondo è guida alpina e soccorritore, specialista di evacuazioni e manovre di soccorso rapide, che ha lavorato anche in India.
E suo ruolo qual è stato?
Ho messo in campo le mie relazioni a Kathmandu, il mio know how, la mia esperienza nel trattare con la burocrazia nepalese. La prima richiesta ufficiale è arrivata dall’Alto Adige, da cui veniva il povero Markus Kirchler. Ovviamente mi sono coordinato con il nostro Ministero degli Esteri.
Secondo lei il ritardo nella partenza dei soccorsi poteva essere evitato?
Forse sì, ma non è un problema facile. Sulle Alpi, quando arriva una richiesta di soccorso, l’elicottero decolla subito, e i soccorritori sanno esattamente dove andare. Le comunicazioni sono rapide, le chiamate sono quasi sempre precise, non ci sono problemi di autorizzazioni o di spese. Le centrali che fanno partire gli interventi sono rapide e abituate a quel lavoro.
In Nepal, invece?
In Himalaya, non solo in Nepal, le prime 6-12 ore, decisive per ritrovare eventuali infortunati ancora in vita, se ne vanno per capire cosa è successo e dove. Poi scatta la domanda “chi paga?”, e li inizia una nuova attesa. Soffre chi è ferito e attende di essere evacuato, soffrono i suoi amici e i suoi parenti a casa.
Cosa si può fare, in futuro, per migliorare questa situazione?
La prima cosa, quando si parte per una spedizione o per un trekking, è lasciare informazioni precise su dove si va, e a fare cosa, alla famiglia, agli amici o alla propria sezione del CAI. La seconda è di informare queste persone sulla propria assicurazione. E’ capitato di perdere giornate intere a cercarla in Italia, e intanto l’elicottero non decollava.
Com’è la situazione in Nepal?
A Kathmandu lavorano 20-25 società di elicotteri, e centinaia di agenzie che organizzano trekking e spedizioni, ma non esiste una centrale che faccia partire i soccorsi. Negli ultimi anni il governo nepalese ha emesso leggi e regolamenti minuziosi sull’alpinismo e i trekking, ma sul soccorso in montagna non c’è niente.
Lo possiamo definire un sistema sbagliato? O crudele?
Ma no! E’ un sistema totalmente privato, dove a far partire i soccorsi sono le agenzie che organizzano spedizioni e trekking. Quelle grandi non hanno problemi, quelle piccole a volte non sanno bene chi chiamare, e non hanno certamente 8.000 o 10.000 dollari da anticipare. A volte anche gli amici e i parenti in Italia non sanno chi chiamare, e il tempo passa. E’ capitato che, per lo stesso incidente, ci fossero due chiamate in parallelo.
Le assicurazioni funzionano?
Sì, anche quella del CAI che viene utilizzata da molti alpinisti e camminatori italiani. Bisogna essere assicurati, ovviamente. E bisogna che tutti – famiglia, amici, agenzia in Nepal o in un altro Paese – abbiano la copia della polizza e i numeri di emergenza da chiamare.
L’Italia può fare qualcosa per migliorare la situazione a Kathmandu?
Certamente sì. I governi, i club alpini e l’UIAA dovrebbero aiutare il governo del Nepal a organizzare una centrale di soccorso. Costerebbe qualche soldo, ma non molto. E comunque, quando nelle condizioni attuali si organizza una spedizione di soccorso in quattro e quattr’otto si spende certamente di più.
Torniamo allo Yalung Ri e ai cinque dispersi sotto alla valanga del 3 novembre. Quanto sono durate le ricerche? E perché sono state interrotte?
Il team è partito su due elicotteri, uno dei quali pilotato da Munari, e ha lavorato a 5500 metri per due giorni, passando la notte nel villaggio di Na. La neve era altissima, si parla di 6-8 metri, e si era già compattata. Le normali sonde in alluminio non bastavano, l‘antenna Recco ha individuato solo dei ramponi e pochi altri oggetti. Per proseguire il lavoro sarebbero servite le sonde d’acciaio, che erano a Kathmandu, e almeno 50 persone. Dopo la seconda giornata il team ha deciso di rinunciare.
Ma le ricerche non sono proseguite ancora per un po’? In Abruzzo, su questo punto, ci sono state informazioni distorte e polemiche.
Dopo il ritorno del team a Kathmandu uno degli Sherpa coinvolti, amico dei due nepalesi sepolti, ha continuato a cercare per due giorni, ma poi è andato a casa anche lui. Nelle polemiche preferisco non entrare.




