Il Monte Ararat sta per scomparire
Dall’1 novembre il profilo del vulcano sparirà dai timbri doganali dell’Armenia. Ragioni di opportunità politica alla base della decisione. Che non è stata gradita da tutti
L’ultimo timbro doganale finito sul mio passaporto è l’unico al mondo (almeno così credo) che riporti il profilo di una montagna innevata. Anzi due. Si tratta dell’Ararat, affiancato dal Piccolo Ararat, montagna gemella ma più bassa di mille metri, disegnati come farebbe un bambino, con le loro belle cime coperte di ghiacci che paiono una glassa di zucchero. Il Paese che vanta questo timbro è l’Armenia e il fatto che l’Ararat si trovi fuori dai suoi confini e sia irraggiungibile per i suoi cittadini rende la questione alquanto misteriosa. L’Armenia, l’ho imparato attraversandola in lungo e in largo per una settimana, è una nazione piccola e molto poco abitata, attraversata da lunghissime dorsali dalle forme arrotondate, rivestite di boschi e vigneti ma più spesso steppose: parrebbero colline, tranne per l’altezza che spesso supera i 3000 metri, mentre tutti i centri abitati sorgono tra i mille (come la capitale Yerevan) e i 2000 metri di quota. Un Paese dall’aria sottile, dunque, che tocca la sua elevazione massima sull’Aragats (4095 metri) nella catena del Caucaso. Però gli occhi degli armeni sono sempre puntati oltreconfine, sui 5137 metri del vulcano più celebre del mondo, che in un tempo remoto era il cuore geografico della Grande Armenia e da oltre cent’anni, dopo una guerra perduta, è stato inglobato dal potente vicino turco.
L’Ararat era celebre anche ai tempi di Noè. Accadeva, almeno stando alla Bibbia, 6000 anni fa: il diluvio, l’arca con tutto lo zoo (tranne i liocorni, certo), e Noè che scende a terra perché finalmente ha smesso di piovere e la barca si è incagliata. Dove? Sui monti dell’Ararat, dice la Genesi. Noè aveva seicentouno anni, e la prima cosa che fece fu piantare una vite. Questo è il mito fondativo del popolo armeno (oltre che di ogni creazionista): l’Ararat e il grappolo d’uva. Entrambi sono simboli nazionali che si ritrovano su bassorilievi, banconote, francobolli, marchi pubblicitari, persino le maglie della nazionale di calcio. L’Ararat in Armenia dà il nome a una miriade di oggetti, tra cui una marca di sigarette e un famosissimo brandy. Ricorreva nello stemma della prima repubblica (1918-1920) e in quello della Repubblica Sovietica (1921-1991), così come è impresso nello stemma della giovane repubblica nata dopo il crollo del Muro.
Una montagna sacra dunque. Ma non meta di pellegrinaggi, non come possono esserlo il Monte Fuji o il Triglav, anzi. Proprio per il suo carattere divino, l’ascensione del vulcano fu a lungo guardata come un sacrilegio. Ci volle uno scienziato tedesco, Friedrich Parrot (a lui è anche intitolata una cima del Monte Rosa), per scalarlo nel 1829. Poi si susseguirono diverse spedizioni pseudo-archeologiche in cerca dell’arca, finanziate anche da gruppi evangelici e antievoluzionisti. Oggi la facile ascensione avviene solo dal versante anatolico, sotto stretto controllo militare, ma gli armeni se ne tengono alla larga perché i turchi, responsabili del genocidio del 1915 (un milione di morti), fanno ancora paura. Preferiscono guardare il loro vulcano da lontano, una candida Moby Dick che si erge dall’altopiano armeno, visibile da ogni finestra di Yerevan e dintorni.
La protezione dell’Ararat non ha risparmiato all’Armenia un ultimo sfregio della Storia: attaccati dall’Azerbaijan nel 2020, dopo tre anni di guerra e altri 7000 morti gli armeni hanno dovuto cedere un ulteriore pezzo di territorio nazionale, il Nagorno-Karabakh: il trattato di pace è stato firmato nell’agosto di quest’anno. Tra le varie clausole, e per fare un piacere alla Turchia, si è deciso che il profilo dell’Ararat sparisse dai timbri doganali. Succederà dal prossimo primo novembre. Così ora osservo il mio passaporto come una reliquia: quei due vulcani, il Grande e il Piccolo Ararat, d’ora in poi non accoglieranno più il viaggiatore che sbarca dall’aereo. Anche se resteranno per sempre impressi nel cuore di ogni buon armeno, simbolo identitario di una Grande Armenia che forse è esistita solo nel mito.