Viaggiare verso il confine dell’Afghanistan su un fuoristrada scalcinato, mentre dallo stereo esce musica pop russa, può sembrare un’attività bizzarra. Ma Farid, l’autista tagiko, non ha dubbi. Ogni volta che uno dei passeggeri chiede di abbassare il volume ubbidisce, ma poco dopo lo rialza, con un mezzo sorriso di sfida.
Tra i brani della playlist di Farid, in realtà, ci sono forti differenze. Per qualche minuto, ascoltando, sembra di essere a San Pietroburgo o a Mosca. Poi compaiono l’Asia centrale, il Tajikistan dove stiamo viaggiando, e anche qualcosa più a sud. In qualche brano, voci e strumenti fanno pensare al Pakistan e all’India.
Non che sia lontano, il Pakistan. Due giorni fa, da un valico roccioso a 4750 metri di quota, abbiamo ammirato dall’alto il vasto Lago Zorkul, oltre il quale inizia l’Afghanistan. Alle sue spalle, nonostante la foschia, si alzavano decine di “sei” e di “settemila” dell’Hindukush, senza nome sulle nostre mappe. Sono le vette del Corridoio di Wakhan, la striscia di terra, larga poche decine di chilometri, disegnata nell’Ottocento per separare i possedimenti dello Zar dal Raj, l’impero britannico in India. Dal 1893, quando Sir Henry e Mortimer Durand l’emiro afghano Abdur Rahman Khan si accordarono su quel confine, e sulla “Linea Durand” che prosegue verso il Passo Khyber, da queste parti è successo di tutto.
La Russia si è trasformata in Unione Sovietica e poi di nuovo in Russia, la Cina ha consolidato il suo potere sul Sinkiang, dove il Corridoio finisce, nel 1947 il Pakistan ha preso il posto dell’impero di Londra e New Delhi. Poi l’Afghanistan è stato scosso dalla guerra tra i mujaheddin e la Russia, e da quella tra gli Stati Uniti, i loro alleati e i Talebani. Nei primi anni Novanta, dopo essere diventato indipendente, il Tajikistan è stato scosso da una guerra civile sanguinosa.
Quando si arriva a Murghab, polverosa cittadina di qualche migliaio di abitanti, ci vuole uno sforzo per ricostruire questa storia. Aiuta a farlo uno sguardo a una mappa dell’Asia, dove risaltano la distanza dalla capitale Dushanbe e la vicinanza dell’Afghanistan e della Cina. Aiutano a farlo i vistosi edifici delle istituzioni e degli uffici pubblici, il monumento alla Guerra patriottica 1941-1945, con la sua madre tagika in lacrime, quasi identica a quelle di centinaia di altri monumenti in tutta l’ex-Unione Sovietica.
Aiuta a farlo la grande statua bianca di Lenin che sorveglia la strada principale, e sembra esortare i passanti. Ma oggi è il primo giorno di scuola, e le mamme che accompagnano i figli vestiti a festa non fanno caso al leader bolscevico.
Nel 1991, dopo il golpe che aveva cercato di togliere di mezzo Mikhail Gorbaciov e le sue riforme, Tiziano Terzani, giornalista e scrittore fiorentino, visita le Repubbliche dell’Asia centrale che stanno per diventare indipendenti. “In Tajikistan i rapporti sociali sono per molti versi ancora di stampo feudale. Nelle ultime edizioni per il Parlamento, i comunisti hanno ottenuto il 96 per cento dei seggi”, scrive in Buonanotte signor Lenin, il libro in cui racconta il suo viaggio.
Nella capitale Dushanbe, prosegue, “la statua di Lenin è stata “giustiziata” pochi giorni fa. Sui pennoni, al posto della bandiera rossa dell’URSS, sventola “la bandiera bianco-verde con al centro un sole dai raggi gialli, il vessillo dello Stato tagiko conquistato dagli Arabi più di mille anni fa”.
Quando arrivo a Murghab con i miei amici di Avventure nel Mondo, sui palazzi sventola la nuova bandiera nazionale, ma la statua di Lenin c’è ancora. Nel palazzo della Milizia, presidiato da militari con i grandi cappelli di stampo sovietico, registrare dieci viaggiatori italiani richiede quasi tre ore, e si entra negli uffici in due alla volta. Scopro un ufficiale che parla qualche parola di inglese, gli chiedo qualcosa e lui si offende. “Russo! Se volete viaggiare qui dovete imparare il russo!”.
Da queste parti, d’altronde, i russi sono sempre stati suscettibili. Fino a metà dell’Ottocento, i pochi che arrivavano fin qui erano schiavi, fatti prigionieri sulle rive del Volga o nelle steppe kazake, e poi venduti nel mercato di Bukhara, che oggi contende a Samarcanda e a Khiva il titolo di meta più apprezzata dell’Uzbekistan.
Poi sono arrivati i generali. Il primo, Mikhail Cherniaev, nel 1865 conquistò Tashkent senza chiedere il permesso allo Zar e al suo governo, e poi anche la fortezza di Khokhand. Fu richiamato a San Pietroburgo, ma passò alla storia come il “Leone di Tashkent”. Proseguirono il lavoro Konstantin Kaufman e Nikolaj Prževalskij, che tra il 1870 e il 1885 diresse quattro spedizioni in Asia centrale, traversando il Deserto di Gobi e raggiungendo Pechino. In Europa il più famoso è Bronislav Gromchevsky, che si spinse fino a Hunza, nell’odierno Pakistan, e tentò di arrivare in Ladakh.
Nel 1889, presso il Passo e il villaggio di Shimshal, Gromchewsky incontrò Francis Younhghusband, simbolo dell’imperialismo britannico in Asia, che trent’anni dopo avrebbe lanciato le prime spedizioni all’Everest. I due si salutarono schierando Gurkha e Cosacchi, e festeggiarono. L’indomani, però, il russo fece cacciare, con sciabole e baionette sguainate, l’inglese da quelle che per lui erano le terre dello Zar. Un episodio che è diventato un simbolo del Great Game, il Grande Gioco.
Oggi, almeno a prima vista, dei tre imperi che si sono sfidati da queste parti resta poco. Ma l’impressione può essere fallace. A sud, oltre i ghiacciai dell’Hindukush, nel 1947 il Pakistan ha preso il posto del Raj britannico. Ma Hunza e Chitral, ex-capitali di piccoli principati indipendenti, anche se aperte ai turisti restano località strategiche.
Da Kashgar, oltre la frontiera cinese, sorvegliata dai ghiacciai del Muztagh Ata, non arrivano in Tajikistan eserciti ma autotreni carichi di BYD, Build Your Dreams, le auto elettriche che invadono i mercati di tutto il mondo. Nella parte meridionale del Sikkim, inaccessibile agli stranieri, secondo gli analisti più informati, Pechino continua ad avere problemi con gruppi islamici dissidenti, e per questo, nonostante le richieste di Kabul, non vuole aprire la frontiera con il Corridoio di Wakhan.
Oggi il Tajikistan, come gli Stati vicini, non è più territorio sovietico. Ma la statua di Lenin, gli atteggiamenti della burocrazia e la lingua (il russo è il solo idioma straniero parlato) dimostrano che un legame profondo rimane. I fantasmi di Cherniaev, Kaufman, Prževalskij e Gromchevsky cavalcano ancora nella steppa.
Negli ultimi giorni del viaggio, dalle sorgenti calde di Jerzy Gumbaz, a lungo utilizzate dall’Armata Rossa, puntiamo al confine dell’Afghanistan. La distanza è poca, e le vette dell’Hindukush oggi si vedono meglio. Nell’unico jailoo della giornata, con le sue yurte e i suoi yak al pascolo, il capovillaggio e i nostri autisti discutono.
Continuiamo fino in vista delle rive del Lago Zorkul, ma prima della sponda veniamo obbligati a fermarci. Per prendere il sole, o per un tuffo, ripieghiamo sugli specchi d’acqua vicini. Oltre il punto in cui ci dobbiamo fermare, sono i resti di caserme e depositi militari.
Con una breve trattativa, però, otteniamo il permesso di salire a una casermetta in muratura, e prima di arrivarci scopriamo che è circondata da trincee. Sul pendio, un boccaporto metallico dà accesso a una postazione sotterranea, forse un ricovero in caso di bombardamento.
Intorno alla casermetta si trovano molti bossoli, dalle feritoie ci si affaccia sull’Afghanistan. In passato, qualche ragazzo arrivato quassù da San Pietroburgo (all’epoca Leningrado) o da Mosca non deve aver passato momenti facili.