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Da Polenza: vi racconto il mio K2

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Per descrivere il K2 abbiamo chiesto le impressioni a un suo grande ammiratore: Agostino Da Polenza, capo di tre spedizioni sulla seconda montagna della terra e primo italiano a raggiungere la vetta dallo spigolo nord, nel 1983.

Nel curriculum da capospedizione di Da Polenza ci sono anche il tentativo del 1986 allo sperone sud  sud-ovest e la salita dello Sperone Abruzzi. Salita ripetuta anche nella spedizione del 1996, quella tragica della morte di Lorenzo Mazzoleni.

 
“K2 è una sigla magica – racconta Da Polenza -, il nome di una montagna diventata il simbolo di tante realtà diverse. Il K2 è l’icona dell’esplorazione, del sapere e dell’alpinismo extraeuropeo italiano. Da Marco Polo, che per primo transitò da quelle parti, a Roberto Lerco, esploratore del tardo Ottocento, fino al Duca degli Abruzzi e le sue formidabili guide valdostane, dal fotografo Vittorio Sella a De Filippi, Dainelli, il Duca di Spoleto, Desio con i suoi alpinisti e ricercatori.

Per arrivare solo fino al 1954. Il K2 è la montagna entrata nel cuore di un popolo considerato di marinai, ma le cui nervature centrali sono le Alpi e gli Appennini, dove ha saputo costruire case, creare lavoro, forgiare una cultura adattata all’ambiente naturale, plasmata dalle comunità delle valli,dai popoli in transito.

E insieme, montanari e marinai, gli italiani tutti, esultarono e si sentirono fieri e pieni di nuove speranze all’annuncio dell’arrivo sulla vetta del gigante del Karakorum, il 31 luglio 1954, della spedizione di Ardito Desio. A toccarla, si seppe poi, furono Achille Compagnoni e Lino Lacedelli.

Il K2 è un gigantesco magnete che attrae e affascina, forte e spettacolare nelle sue vesti di ghiaccio e roccia, nei veli fatti di nevai e di nuvole che corrono, ma anche feroce per il numero di vittime causato dalla passione travolgente di chi lo vuoi conquistare, per la tragica storia di ognuna di loro.

A distanza di anni dalla loro scomparsa questa montagna restituisce corpi e memorie, con i suoi tempi, le sue modalità. Di tutti gli alpinisti che qui hanno lottato e vissuto, resta nell’aria una traccia, il sentore di una folla di volti, di speranze, di volontà, di coraggio e paura.

Il K2 è la montagna viva che senti respirare, pulsare, muoversi, alla quale è difficile sottrarsi e doloroso concedersi”.

Nel 2004 Da Polenza è di nuovo a capo di una spedizione tra quelle montagne. K2-2004, 50 anni dopo, per celebrare la conquista tutta italiana di Lacedelli e Compagnoni, sotto l’abile guida del professor Ardito Desio, nel 1954. Le sue parole si riferiscono all’arrivo al campo base, il 28 giugno 2004..

"Pioggia e neve ci accompagnano – prosegue Da Polenza – dai giorni precedenti fino a Urdukas, ma il punto tappa di Gore lo raggiungiamo con un blu pieno di sole, tra i colori delle rocce e dei ghiacciai. A Concordia, il giorno successivo, arrivo piangendo. Ecco di nuovo il "mostro".

Sì! Così mi permetto di chiamarlo, alla faccia di tutti i bigotti dell’ambiente, gli ipocriti del linguaggio, gli intellettuali del nulla, gli schiavi del politically correct della montagna. Il K2 era lì davantia me, imponente da far paura, e al centro del suo cuore di ghiaccio vedevo il corpo di Lorenzo.

Ho salutato Lorenzo, lo sentivo vicino, e lui, come un bambino spaventato, mi raccontava dell’orco che l’aveva in custodia, delle tormente, della paura dei seracchi, ma anche di quanto erano belle le albe, i tramonti, la luce.

Quelli che vedevo attorno in quel momento non erano portatori in fila nell’abbacinante luce del mezzogiorno di Concordia. Avevano invece il volto di Renato Casarotto, che ho seppellito là sotto nel ghiaccio, di Julie Tullis e Alan Rouse, rimasti lassù sopra la Spalla, di Liliane e Maurice Barrard, ritrovati nel 1987 alla base della grande parete Sud.

Dei tre ragazzi austriaci giovani e spavaldi quanto sconsiderati, dei due americani sepolti sotto il pendio della Sella Negrotto da una imprevedibile slavina. E avevano anche il volto del giovane Benoit Chamoux, che quell’anno con noi fece il record della salita sul K2, in ventitré ore dalla base alla vetta, e dello "zio Gianni" (parlo di Calcagno), con il suo turbante da talebano e l’inseparabile Tullio Vidoni accanto.

Dopo qualche anno sarebbero scomparsi tutti e tre: Benoit sul Kanchenjunga, capolinea della sua corsa ai quattordici Ottomila, Gianni sul lontano McKinley, Tullio sulle montagne di casa, nella neve della Val Sesia.

E io piangevo, nel sole che mi intontiva, con gli occhiali a maschera, mentre parlavo con Lorenzo. Li conoscevo tutti, erano miei amici, alcuni li chiamavo fratelli, quelli che il K2 e la montagna mi hanno strappato. E io ero di nuovo. Lì, con altri trenta amici, per tentare ancora una volta, per tornare sul "mostro". Il K2 io lo chiamo come mi pare".

Nell’immagine: Da Polenza insieme ad un’altra delle leggende viventi dell’alpinismo. Kurt Diemberger, unico uomo al mondo ad avere scalato due ottomila in prima ascensione e senza ossigeno (Broad Peak e il Dhaulagiri). Foto scattata al campo base del K2 in occasione della spedizione del cinquantenario.

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