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Acqua, il grande affare che non fa bene alla montagna

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BERGAMO — E’ una delle grandi questioni che, prima o poi, esploderà. E allora ne vedremo delle belle, perchè di quella risorsa proprio nessuno può fare a meno. Stiamo parlando dell’acqua, indispensabile al genere umano e alle sue attività, fornita in gran parte dalle montagne e, stando agli esperti, in preoccupante diminuzione.

Che l’acqua sia sempre più ambìta è sotto gli occhi di tutti. I cambiamenti climatici in atto parlano di desertificazione in aumento in buona parte del pianeta. Intere regioni, anche della temperata Europa, stanno soffrendo di mancanza d’acqua più o meno prolungata. Secondo i dati dell’Unione Europea, fra il 1976 e il 2006 le aree e le persone del continente colpite dalla siccità sono cresciute del 20 per cento. Solo nel 2003, sono stati coinvolti un terzo dei territori dell’Unione e 100 milioni di cittadini. Un’emergenza che negli ultimi trent’anni è costata 100 miliardi di euro.
 
Fra le zone colpite, anche l’Italia. Le secche del Po e dei laghi alpini sono diventate celebri quanto i razionamenti e la raffica di ordinanze dei sindaci che vietavano sprechi del prezioso elemento.
 
Ora però, il paradosso è un altro: pare che l’acqua potabile scarseggi laddove invece dovrebbe abbondare. In montagna, nella fattispecie. E non stiamo parlando dell’ovvia Sicilia, ma delle Alpi, il serbatoio d’acqua dolce più grande d’Europa.
E dire che l’Italia d’acqua ne avrebbe, eccome. Secondo i dati di Legambiente, la disponibilità teorica nel nostro paese è di 155 miliardi di metri cubi l’anno. Ovvero 2700 metri cubi a testa. Il problema è che la cattiva gestione e la scarsa pianificazione degli usi idrici riducono questa disponibilità a 920 metri cubi. E così risulta che un terzo degli italiani non ha accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile.
 
E attenzione, a pesare non è solo la complessa vicenda del ritiro dei ghiacciai. Ma ci sono questioni ben più spicce. Accade infatti, sempre più frequentemente, che, nei comuni alpini e non solo, l’acqua non arrivi dai rubinetti ma attraverso autobotti. Colpa d’impianti idrici obsoleti e malandati. Reti invecchiate che le piccole amministrazioni montane, perennemente a corto di denaro, non possono riparare e affidano ai privati.
 
E così, spesso, i tubi rotti o danneggiati da incuria o animali restano lì per anni, a far compagnia ai bacini di captazione abbandonati. A quel punto, basta un minimo di siccità e siamo all’emergenza. E’ accaduto, per esempio, in Val di Thuras, nel Torinese. Per due inverni di seguito, fontane e borgate sono rimaste a secco. Accade regolarmente sulle montagne della Sardegna, dove la rete idrica è un “colabrodo” che disperde oltre la metà dell’acqua in transito.
 
Ma la questione dell’acqua in montagna non è limitata agli acquedotti obsoleti. Anche perchè, a dire il vero, secondo l’Unione Europea solo il 13 per cento dell’acqua dolce viene utilizzato per l’approvvigionamento idrico pubblico. Il restante 79 per cento finisce invece in agricoltura e industria. Un impiego spropostitato e del tutto arbitrario, frutto di un modello di sviluppo che ormai non sta più in piedi, dicono gli esperti. Dagli anni Cinquanta ad oggi, nel nostro paese l’acqua è stata considerata illimitata. In realtà si tratta di una risorsa finita, sempre più rara e malsfruttata.
 
Qualche dato, per capirci meglio. Prendiamo il Piave. Il fiume sacro alla Patria è uno dei bacini più artificializzati d’Europa. Il 90 per cento delle sue acque viene intubato e sottratto al fiume per usi industriali e agricoli. Lungo il suo corso, giù dalle Dolomiti Bellunesi, ci sono una decina di dighe, oltre 50 griglie di captazione, 60 vasche di raccolta e 200 chilometri di adduzioni. Il resto lo fa una falda acquifera calata di 10 metri in pochi anni. Risultato: il fiume oggi è sparito se paragonato alle mappe storiche.
 
Ma lo stesso vale per buona parte dei corsi d’acqua, dei torrenti e delle valli del restante Arco Alpino. In Valseriana, zona altamente industrializzata, sono famose le secche del Serio. A Sondrio, il 70 per cento delle acque finisce in impianti di produzione d’energia. Ci hanno provato anche con quelle della bellissima Val di Mello, ma una mezza insurrezione popolare ha bloccato i progetti.
 
L’acqua, in realtà, è – e sarà sempre più – una fonte di ricchezza, nel vero senso della parola. Perchè fornisce energia pulita e, pur essendo un bene pubblico, è facilmente "monetizzabile". Lo hanno capito bene le aziende energetiche, anche quelle piccole. Tanto che in Veneto da tempo è partita la corsa all’installazione di microcentraline indroelettriche sui torrenti di montagna. Piccoli impianti, per servire questa o quell’azienda con energia a costi competitivi, e ricavi a palate. Una corsa che ricorda molto la febbre dell’oro degli inizi del ‘900. A cui partecipano enti pubblici e privati, sulle Alpi come in Appennino: celebri gli investimenti della Regione Lazio per la captazione di nuove sorgenti nel parco regionale dei Monti Simbruini.
 
Si chiama sfruttamento delle risorse naturali. Un giro vorticoso di denaro, un grande affare dai profitti milionari. Con la montagna che serve la pianura, ma senza guadagnarci nulla. Sì, perchè a dire il vero, i comuni di montagna, pur subendo danni ambientali evidenti dagli impianti di captazione, molto spesso sono tagliati fuori dai proventi di una risorsa generata dal loro territorio. Allora, come stabilire una corretta "governance" delle acque? A chi spettano i diritti di sfruttamento di un bene che è di tutti? E che ruolo dev’essere riconosciuto ai territori di montagna?
 
L’Europa ha provato a riordinare le carte. La Direttiva Quadro sulle acque "riconosce e valorizza le peculiarità e le necessità delle regioni montane, e garantisce contemporaneamente l’indispensabile tutela delle risorse idriche e lo sviluppo economico". Bella dichiarazione d’intenti, completamente disattesa in Italia. 
 
Così come vengono puntualmente disattesi gli appelli a evitare gli sprechi. Nel Belpaese sembra vigere il proverbio "finché ce n’è, viva il re". Solo per citare un esempio, è noto in tutto il mondo che gli agricoltori italiani consumano il 40 per cento di acqua in più dei loro colleghi europei per irrigare i campi. Tutta colpa di un’agricoltura intensiva, altamente idrovora. Di sistemi d’irrigazione ad alto consumo. E di perdite lungo il percorso. Se a questo aggiungiamo che, contrariamente alla prescrizioni europee, in Italia gli ecosistemi acquatici montani non vengono ripristinati anzi devastati, la frittata è fatta.
 
D’altronde, negli ultimi decenni le politiche nazionali e regionali hanno sistematicamente ignorato i "bisogni" della natura a favore di altri interventi. Qualche esempio celebre, del passato e non, in questo paese senza memoria. Al Mugello, sull’Appennino Tosco-emiliano, per realizzare le gallerie dell’alta velocità ferroviaria sono state depauperate falde, cancellate sorgenti e inquinati i torrenti. Lungo i cantieri della linea, Legambiente ha stimato perdite di 750 litri al secondo di ottima acqua di montagna.
 
Ma non è finita. Sul Gran Sasso, in Abruzzo, negli anni Sessanta, la realizzazione dei due trafori autostradali e dei 12 laboratori dell’Istituto di fisica nucleare hanno portato allo svuotamento del più grande serbatoio idrico della regione. Le perforazioni hanno fatto sparire un complesso sistema di falde idriche alte 600 metri. Poi, come se non bastasse, nel 2002 un incidente ha portato allo sversamento di liquidi tossici nel fiume Mavone che hanno raggiunto il sistema dell’acqua potabile.
 
Il paradosso, però, si è toccato in Calabria, regione perennemente sull’orlo della siccità ed estremamente bisognosa d’acqua, sia per il consumo potabile sia per l’agricoltura. Ebbene, secondo quanto riporta Legambiente, delle 36 dighe esistenti sulla carta, solo 10 sono in funzione. Delle altre, 5 non sono mai state completate. Sei sono finite, ma non erogano acqua per mancanza delle opere di distribuzione. E 15 sono solo alla studio di fattibilità. Campa cavallo che l’erba non cresce…
 
Wainer Preda
 

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