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Tibet, il dialogo è sempre più difficile

LHASA, Tibet — Continuano gli scontri tra tibetani ed esercito cinese a Lhasa, capitale del Tibet. Nonostante l’ultimatum posto dal governo di Pechino infatti, che dava tempo agli insorti fino a lunedì per abbandonare le armi, focolai di rivolta continuano a scoppiare in tutto il paese. Per cercare di fare chiarezza sulla vicenda, abbiamo chiesto il parere a un esperto: Maria Luisa Nodari, ricercatrice del Comitato Ev-K2-Cnr e antropologa, autrice di una ricerca sul campo nella regione autonoma del Tibet.

Dottoressa Nodari, cosa sta succedendo a Lhasa visto che le fonti sono spesso discordanti fra loro?
La maggior parte delle informazioni si possono trovare sulle maggiori testate giornalistiche, ma in realtà finchè non si è lì non si ha un’esatta percezione di cosa stia succedendo. Quello che si può fare per avvicinarsi alla realtà è forse una media di tutte le informazioni che ci arrivano. Dalle informazioni che ho avuto gli scontri sono iniziati nei monasteri sopra Lhasa, per motivi non facili da chiarire. C’è stata poi questa escalation di violenza a Lhasa ed in alcuni monasteri di Sichuan, famosi già per aver scatenato in passato delle rivolte contro il governo centrale.

Quali sono i retroscena della vicenda?

Ci sono 50 anni di situazione politica molto complicata. Probabilmente alcuni monaci -in una situazione di tensione- hanno dato il via alle proteste, come successe nell’ 89, e poi a partire da questi, parte della popolazione è insorta. Al contrario di quanto si pensi, e questa è forse la questione più importante, non esiste un leader o un gruppo politico preciso e definito alle spalle delle rivolte. Così per il governo centrale è molto difficile individuare un capo politico, un leader nella Regione Autonoma del Tibet, per bloccare le insurrezioni. Il governo centrale ha a che fare con molteplici focolai di protesta spontanei. Ricordo inoltre come in questo ultimo anno il prezzo del cibo (riso, frumento, etc) sia cresciuto moltissimo in Cina, incidendo molto sulla condizioni di vita delle popolazioni delle zone rurali.

Relativamente ai rapporti tra Cina e Nepal, cosa ne pensa del fatto che il Nepal abbia accettato così in fretta le richieste dei cinesi?
Sulla questione ho ancora poche informazioni. Mi ha stupito per la verità che la Cina abbia annunciato la chiusura del Monte Everest solo adesso, così tardi, e non già un anno fa. Penso che la prima reazione dei Nepalesi sia stata di preoccupazione. La Cina del resto è un vicino molto ingombrante, ed il Nepal ha logicamente l’interesse politico ed anche economico a non inimicarsi l’ingombrante vicino. Non conosco comunque ancora al momento le ragioni ufficiali che sono state avanzate per giustificare la decisione.

Cosa ne pensa del fatto che in Tibet questi disordini siano scoppiati adesso?
Gli avvenimenti in Cina sono sempre concatenati. I Cinesi in questo momento (vedi Olimpiadi) hanno bisogno di fare in modo che il Tibet rimanga una provincia tranquilla. Lunedì scadeva l’ultimatum del governo di Pechino per la consegna dei ribelli: i cinesi hanno concesso del tempo per far rientrare la rivolta.
Come ho già detto queste vicende sono il frutto di una situazione da tempo critica. Il Monte Everest (che è nella regione autonoma del Tibet) è al centro dell’interesse del governo e sarà ‘vetrina’ del governo nelle prossime olimpiadi. Il passaggio della torcia olimpica all’interno della regione, e la sua salita all’Everest certamente porta uno stress politico, e questo si è visto soprattutto dallo scorso anno’.

Secondo lei questi disordini potrebbero continuare anche durante le Olimpiadi oppure si fermeranno?
No, non penso durino ancora a lungo. E’ comunque sempre difficile fare previsioni. Faccio notare come il Dalai Lama abbia fatto in modo più volte di ricordare ai tibetani che episodi di violenza portano poco giovamento al suo popolo. Il punto è sempre che non ci sono delle persone/capi di riferimento o un piano politico preciso dietro queste rivolte. Probabilmente si tratta di insurrezioni a furor di popolo, la conseguenza di decenni di problemi politici notevoli, una situazione che a un certo punto esplode. Quello del Dalai Lama non è tanto un comando quanto un invito al suo popolo.

 

Valentina d’Angella

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