
BERGAMO — Una selva di dichiarazioni contraddittorie, di anteprime e di annunci che anticipavano la realtà sparita dietro un caos di notizie, che volevano fare informazione e alla fine hanno sortito l’effetto opposto. La morte di Marco Anghileri ha generato questo: di sicuro perché era un personaggio molto amato e seguito. Stessa motivazione peraltro, per la quale non è potuta mancare, più forte che mai, la retorica che sempre accompagna la calata del sipario sulla vita degli alpinisti caduti in montagna. È questo che dobbiamo aspettarci nell’epoca della comunicazione social?
Che Marco Anghileri fosse molto amato oltre che dai suoi cari, dal mondo alpinistico e da tanti che hanno avuto l’occasione di incontrarlo, è un sicuro dato di fatto. Ne è una prova il bailamme che si è scatenato su Facebook dopo la sua scomparsa, dove tutti hanno voluto esprimere il proprio stato d’animo. Non solo la tristezza del dopo sciagura, ma anche la precedente eccitazione del tentativo: dalle proprie bacheche molti hanno voluto essere i primi ad informare, a dare notizia della grande scalata che il Gamma stava tentando sul Pilone Centrale del Freney e che ha finito, purtroppo, per costargli la vita.
Durante la salita, in tanti si sono precipitati a postare foto di avvistamenti e notizie di sms, a riferire voci di sentito dire, tanto che già venerdì qualcuno lo dava vittorioso, in vetta o a poca distanza, all’uscita dalla via, o addirittura in fase di ritorno, quando – come poi ha rivelato l’epilogo di questa storia – la caduta avrebbe interrotto la salita di Anghileri molto prima di arrivarci. I rumors hanno avuto una eco incontenibile: come ormai spesso accade negli ultimi anni, dai Social network sono passati ai giornali, che li hanno trasformati in notizia. Anghileri era diventato l’eroe della solitaria invernale alla Jori Bardill troppo presto, contravvenendo la prima regola dell’alpinismo: “in cima non si è nemmeno a metà”.
Come si è potuto fraintendere a tal punto? Come ha potuto fallire la comunicazione in un’epoca in cui i cellulari arrivano quasi dappertutto, e in una circostanza in cui non esiste nemmeno il tipico fruscio che disturba la telefonata via satellitare? Forse la ragione va cercata nell’empatia, nella sentita partecipazione di chi scrive o nel desiderio del voler dare per primi la notizia. Facebook e i social network tout court si sono rivelati una cassa di risonanza di un fenomeno non certo nuovo: ricordiamo due anni fa, quando Mario Panzeri veniva dato in vetta al suo 14esimo ottomila mentre lottava contro la tempesta di vento, 7 ore prima di esserci arrivato; o il caso più recente capitato durante la spedizione invernale al Nanga Parbat, quando si parlava di un Simone Moro e un David Goettler prossimi a tentare la cima sebbene dal campo base Emilio Previtali (che si trovava lì proprio per dare aggiornamenti dalla spedizione) affermasse il contrario. Un fenomeno quindi già noto, che vediamo sempre più amplificato ai massimi livelli e alla portata di chiunque disponga di una vetrina online seguita da un pubblico col dito sempre pronto a ribattere e a condividere.
Anghileri in cima al Monte Bianco non è arrivato, e in definitiva, che la prima ripetizione invernale e solitaria della Jori Bardill sia stata compiuta oppure no rimane, francamente, un fatto del tutto secondario. Perché della sua morte ci si dispiace: per l’alpinista e per l’uomo, senza bisogno di averlo conosciuto personalmente.
E dopo la confusa comunicazione alpinistica è arrivato il momento del cordoglio, anche quello troppo presto, con la fretta di essere i primi a palesare al mondo il proprio dolore attraverso bacheche di Facebook rapidamente riempitesi di messaggi “finto-criptici”, oppure persino manifesti. Una morte comunicata prima ancora che fosse accertata dal soccorso alpino, che avrebbe recuperato il corpo avvistato alla base del Pilone, accertandone l’identità, solo diverse ore dopo. Un passaparola virtuale che poteva correre più veloce di quello reale, arrivando alle persone più vicine ad Anghileri prima del dovuto.
Non si tratta di voler puntare il dito o distribuire colpe, quanto piuttosto di fermarsi a riflettere sulle conseguenze di una tempistica sbagliata. Una riflessione che storicamente spetta ai giornalisti, a cui si chiede – giustamente – di saper dosare velocità di pubblicazione con il rispetto, sempre dovuto, verso chi quella notizia la subisce. Perché le notizie possono fare male, soprattutto quando riguardano una morte.
Non è sempre facile, ogni episodio richiede un ragionamento a sé. A volte si sbaglia anche, ma per chi fa questo mestiere è parte della professione. Solo che ora la questione non riguarda più solo i giornalisti, ma tutti coloro che parlano attraverso i social network: pagine bianche di cui è difficile mantenere il controllo e su cui scriviamo messaggi che non possiamo prevedere esattamente a chi arriveranno o dove andranno a finire. La responsabilità dell’informazione è allora oggi più di prima nella mani di tutti. Siamo pronti a condividere anche questo?