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Valtellina, alla scoperta del permafrost di Cima Piazzi

Permafrost
Il posizionamento degli strumenti per lo studio del permafrost

MILANO — Alla ricerca del Permafrost. Dopo due anni di studi e ricerche scientifiche focalizzate a quantificare gli impatti del cambiamento climatico sui ghiacciai dell’Alta Valtellina, i ricercatori dell’Università degli Studi Milano insieme all’azienda Levissima volgono ora le loro attenzioni al Permafrost, ghiaccio nascosto nella roccia e nel suolo, straordinario indicatore climatico capace di fornire preziosi dati sugli effetti del riscaldamento globale.

Il permafrost è costituito da terreno o roccia perennemente gelati, quindi con temperatura inferiore allo zero, rappresenta un elemento di grande interesse della criosfera, cioè l’insieme dei ghiacci presenti sulla terra, ed è inserito dalla World Meteorological Organization (WMO) tra gli indicatori climatici fondamentali degli impatti del Riscaldamento Globale (Global Warming). Infatti, l’estensione superficiale del permafrost e il suo spessore variano in funzione delle condizioni climatiche e, proprio per questo motivo, la sua formazione, la sua consistenza e le sue variazioni rappresentano un importante campo di indagine per la comunità scientifica, impegnata nello studio dell’impatto del riscaldamento climatico sull’ambiente.

“Il monitoraggio del permafrost montano ed in particolare alpino, rappresenta un utile ed efficace strumento di indagine per valutare intensità ed effetti del riscaldamento globale – afferma Claudio Smiraglia, professore dell’Università degli Studi di Milano e ricercatore del Comitato EvK2Cnr -. Il permafrost è presente in grandi quantità alle elevate latitudini, in Alaska o Siberia per esempio, e sembra sottoposto ad accelerata fusione negli ultimi anni a seguito proprio del riscaldamento climatico in atto. Anche sulle Alpi la sua presenza è nota, però sono meno conosciute la sua distribuzione, le sue variazioni recenti di spessore ed estensione in relazione ai cambiamenti climatici nonché il suo contributo come riserva idrica. Quando fonde, infatti, anche il permafrost rilascia acqua ma non è ancora noto sulle Alpi quanto sia importante questo contributo per l’idrologia dei nostri bacini montani. L’analisi dei dati che verranno rilevati attraverso l’innovativa sperimentazione messa in atto in collaborazione con Levissima contribuirà notevolmente alla conoscenza del permafrost alpino italiano e fornirà alla comunità scientifica nazionale, ma anche internazionale, informazioni estremamente preziose e utili per approfondire la conoscenza delle montagne e delle loro preziose acque”.

A compiere questi nuovi studi sarà un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze della Terra guidato da Claudio Smiraglia e dalla dottoressa Guglielmina Diolaiuti, collaboratori del Comitato EvK2Cnr. Sarà poi della squadra anche Mauro Guglielmin, professore dell’Università dell’Insubria e maggior esperto italiano di permafrost, coinvolto nella fase di analisi dei dati.

Il posizionamento dei termometri per lo studio del permafrost
Il posizionamento dei termometri per lo studio del permafrost

Il team di ricercatori dell’Università di Milano, che coordina il progetto, ha predisposto la strumentazione che all’inizio di agosto è stata installata sulla vetta più elevata del Gruppo Piazzi-Dosdè in alta Valtellina, Cima Piazzi (3.430 metri). L’installazione è stata effettuata da quattro guide alpine dell’Alta Valtellina – Eraldo Meraldi, Matteo Schena, Luca Martinelli e Gianluca Olcelli – insieme a Roberto Chillemi come tecnico dell’Università di Milano. Il Gruppo Piazzi-Dosdè è situato in Val Viola Bormina, un’area di grande valenza naturalistica ed ambientale, oggi considerata un vero e proprio “laboratorio a cielo aperto” per lo studio e le ricerche sulla criosfera.

Qui, sui versanti settentrionale e meridionale della vetta rocciosa di Cima Piazzi, sono avvenute le operazioni di posizionamento dei termometri per lo studio del permafrost: sono stati inseriti nella roccia a diversa profondità otto piccoli sensori termici – quattro sulla parete sud e quattro sulla parete nord. I termometri sono stati localizzati nella roccia dalla superficie sino ad una profondità di circa mezzo metro per misurarne con continuità la temperatura. Gli otto sensori sono collegati tramite appositi cavi ad una centralina che memorizza periodicamente i dati raccolti. In questo modo, ogni ora vengono registrati i valori termici medi, minimi e massimi rilevati nello stesso istante da ciascun termometro. Per tutto il resto del 2010 e per il 2011, i sensori termici rileveranno e registreranno così i dati di temperatura alle diverse profondità nella roccia della vetta di Cima de Piazzi.

“In poco più di 15 giorni dall’inizio della sperimentazione è già emersa un’elevata correlazione tra i valori termici della roccia alle diverse profondità, la profondità e l’esposizione solare- conclude Smiraglia -. I sensori posizionati sul versante nord hanno evidenziato che le variazioni termiche tra superficie e 50 centimetri di profondità sono di 2.5 °C; diversamente i sensori localizzati a sud hanno mostrato che la differenza di temperatura della roccia tra superficie e strati profondi supera spesso i 9°C. Questo evidenzia che le rocce esposte a meridione sono soggette a più intense variazioni di temperatura, con conseguenze importanti sulla loro degradazione fisica”.

I dati raccolti durante tutto il periodo di studio, oltre a identificare la presenza del permafrost nell’area di indagine potranno anche indicare se, come sta avvenendo per i ghiacciai, vi sia in corso una degradazione superficiale del permafrost che potrebbe portare ad una maggiore instabilità dell’alta montagna.

“Questo progetto di ricerca scientifica rappresenta la naturale evoluzione e proseguimento di quanto intrapreso nel 2007- afferma Daniela Murelli, Direttore del Gruppo Sanpellegrino di cui fa parte Levissima -: dallo studio del ghiaccio di superficie, visibile a occhio nudo, all’analisi e allo studio oggi del ghiaccio nascosto nella roccia e nel suolo. Il percorso di sostenibilità sociale e ambientale intrapreso concretizza l’impegno nei confronti dell’ambiente, della società e delle comunità in cui opera”.

Come per gli esperimenti svolti in precedenza, anche in questo caso la sperimentazione è avvenuta a “impatto zero” sul territorio. L’installazione dei sensori è avvenuta senza l’ausilio di elicotteri o mezzi meccanici per il trasporto del materiale così sarà anche per le prossime spedizioni di verifica e controllo che verranno svolte regolarmente durante tutto il periodo di studio.

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Un commento

  1. Ben venga ogni nuova indagine scientifica sull’evoluzione del “permafrost” sulle Alpi!
    La recente ricostruzione di una stazione, mi pare quella intermedia, della funivia del Corvatch in Engadina Alta (ca 5.000.000 CHF d’nvestimento), nonchè l’aumento di fenomeni d’instabilita’ in molte zone anni fa’ poco esposte al pericolo di caduta pietre, gia’ testimonianano l’evidenza del fenomeno di riduzone o scomparsa, fin poco sotto i 3000 m del “permafrost” in molte zone dell’arco alpino. Per cui ben vengano nuove ricerche scientifiche, ma mi auguro non individualizzate ed indipendenti, bensi’ coordinate per raccogliere i risultati dalle varie zone, possibilmente correlarli e trarre conclusioni che possano contenere anche teorie ed ipotesi di connessioni causali tra particolarita’ climatiche locali ed effetti sul “permafrost” alpino. Cosi’ anche da fornire indicazioni sulle possibili evoluzioni, con coneguenze sugli aspetti relativi alla sicurezza di costruzioni passate, e vie alpinistiche ed escursionistiche sulle Alpi.
    Fra esperti che vogliano affrontare scientificamente un tale importante problema, la collaborazione non dovrebbe costituire un problema.
    Buon lavoro, sinceramente, per la sicurezza di tutti, AT

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