
«A causa del peggioramento delle condizioni meteorologiche, non siamo riusciti a raggiungere la vetta e siamo tornati indietro a circa 7.689 metri. Abdul mi ha chiesto di scattare una foto dal basso. A quel punto, ci ha proposto di fingere il nostro successo in vetta, assicurandoci un significativo risarcimento economico in cambio». Con queste parole un testimone oculare della spedizione pakistana svoltasi lo scorso agosto al Tirich Mir, massiccio di 7.708 metri nell’Hindu Kush, ha messo in dubbio l’effettivo raggiungimento della cima da parte del team guidato da Abdul Joshi, tramite una mail inviata a diversi media internazionali, tra i quali anche montagna.tv.
L’antefatto è piuttosto semplice: fra l’1 e il 19 agosto 2025, due cordate pakistane hanno dichiarato di aver raggiunto il Tirich Mir attraverso una nuova via sul versante ovest della montagna. La prima cordata risultava composta dal leader Abdul Joshi e da un gruppo di guide di Shimshal: Hameed Ullah, Faryad Karim, Mansoor Karim e Nisar Ahmed. Stando a quanto dichiarato immediatamente dopo da Joshi, il gruppo avrebbe raggiunto la vetta l’1 agosto, seguito pochi giorni dopo dalla squadra di Sirbaz Khan, primo pakistano nella storia ad aver raggiunto tutti i quattordici Ottomila, che ha dichiarato di aver toccato la vetta del Tirich Mir il 19 agosto, dopo un’ascensione condotta con Abid Baig da Hunza e Akmal Naveed e Shams Qamar da Chitral.
Una condotta scorretta
Abdul Joshi e Sirbaz Khan avevano collaborato almeno in un’altra importante spedizione: quella del 2021 all’Annapurna, quando divennero i primi pakistani a raggiungere la vetta. Khan si è poi concentrato sulla scalata di tutti gli Ottomila metri senza ossigeno supplementare, impresa completata quest’anno sul Kangchenjunga, mentre Joshi ha scalato l’Everest nel 2023 e il K2 nel 2024, puntando nel 2025 proprio al Tirich Mir, definita da egli stesso «una delle ascese più impegnative e pericolose che abbia mai portato a termine». Sempre che, a termine, l’abbia portata.
Le nuove accuse del testimone oculare, che preferisce restare anonimo durante tutta la durata di eventuali nuove indagini, gettano un’ombra sulla carriera brillante e remunerativa di Joshi, soprannominato “Path Finder” dalla comunità alpinistica pakistana, per la straordinaria abilità dimostrata nel trovare vie nuove e mai tentate sulla maggior parte delle vette che tenta. Spesso coinvolto in operazioni di soccorso ad alto rischio e mosso ultimamente dall’obiettivo di sensibilizzare il suo pubblico sugli effetti dei cambiamenti climatici, Joshi rischia stavolta di essere travolto da un’onta difficile da digerire.
«Inoltre, – continua infatti la mail – sebbene tutti i membri del team abbiano contribuito in egual misura e, in alcuni casi, abbiano lavorato più duramente di Abdul, in particolare durante le fasi critiche di fissaggio delle corde sul Tirich Mir, è stato lui ad attribuirsi il merito esclusivo dei risultati della spedizione. Questo ha lasciato tutti noi con la sensazione di essere stati deliberatamente ignorati, diventando invisibili. Come se i nostri sforzi e il nostro ruolo non fossero mai stati riconosciuti».
Lo scenario della vicenda, il Tirich Mir
La vetta più alta dell’Hindu Kush, il Tirich Mir, fu conquistata per la prima volta da una spedizione norvegese nel 1950. Nel 1967, un’altra spedizione, stavolta cecoslovacca, raggiunse la vetta attraverso il versante nord occidentale del ghiacciaio Tirich, quella che oggi è considerata la via normale per raggiungere la cima. Il Tirich Mir divenne in seguito molto popolare fra gli alpinisti lungo tutto il corso degli anni Settanta, ma le autorità pakistane smisero di rilasciare permessi poco dopo a causa della chiusura del vicino confine con l’Afghanistan. Più di recente, la vetta è stata raggiunta soltanto due volte: nel 2016, quando i francesi Jerome Chazelas e Thomas Quillet hanno ottenuto un raro permesso, partorendo una loro variante della via cecoslovacca del 1967, e nel 2023 dai giapponesi Kayuza Hiraide e Kenro Nakajima, che salirono la parete nord della montagna, fino ad allora inesplorata. L’impresa valse loro il Piolet d’Or nel 2024, ricevuto postumo dalle rispettive vedove, in quanto i due nipponici erano nel frattempo venuti a mancare lungo la parete ovest del K2.
La messa in dubbio e i suoi dettagli
Mentre attendiamo riscontri dai due principali alpinisti coinvolti nella vicenda, Joshi e Khan – anche se la salita di quest’ultimo è indiscutibile –, quanto risulta da ulteriori approfondimenti è uno scenario nebuloso, a partire dall’altrettanto incerta meteo di quei giorni. Uno dei principali punti che Abdul Joshi ha a suo tempo evidenziato di quel giorno è la scarsa visibilità di cui la squadra ha potuto godere sulla vetta, dove il vento sferzava e che la cordata aveva raggiunto piuttosto tardi. D’altra parte, tuttavia, la presunta foto di vetta non sembra mostrare condizioni analoghe: nonostante le nubi, l’azzurro del cielo sembra spuntare con chiarezza e la visibilità non appare delle peggiori. Allo stesso modo, continuando ad analizzare l’unica prova in nostro possesso, ovvero la foto di vetta, gli occhiali da sole degli alpinisti sembrano riflettere una sorta di pendio innevato e non il vasto orizzonte che ci si aspetterebbe di poter vedere da quell’altopiano pianeggiante che sappiamo essere la vetta del Tirich Mir.
Ciò che è certo è che di vicende simili ve ne sono a bizzeffe. In una sorta di approccio cartesiano all’alpinismo, la messa in dubbio sembra essere diventata negli anni il primo vero criterio attraverso il quale provare la salita di una montagna. D’altra parte, mentre un’ascesa si può effettivamente provare, attraverso fotografie e dati satellitari, il procedimento contrario non è mai altrettanto automatico. Eppure è quanto ci troviamo sistematicamente a fare di fronte a chi rivendica una scalata: tentare di confutarne le prove, prima ancora che di prove, sul tavolo, ve ne siano. Aspettando quelle che presenterà a questo punto Abdul Joshi, ci viene da riflettere su quanto, lontani i tempi di Cesare Maestri e Toni Egger e più vicini quelli di Marco Confortola, la storia sia sempre la stessa. E su come, più che un problema di alpinismo, sia di fatto una questione di fiducia.