
Celebriamo il nostro solstizio d’inverno in un luogo speciale, per cogliere un momento fisso nel cielo, osservato da millenni dai nostri progenitori: l’istante in cui il Sole tocca il punto più basso del suo cammino.
Saliamo nel giorno in cui la notte è la più lunga dell’anno e il Sole sembra rallentare, quasi fermarsi, prima di tornare lentamente a risalire sull’orizzonte. Un’illusione ottica, certo, ma anche una percezione antica, profondamente umana. Non a caso, per moltissime civiltà questo passaggio rappresentava un momento simbolico potentissimo, una soglia, morte apparente, attesa, rinascita. Non soltanto un evento astronomico, ma un fatto cosmologico e rituale, capace di tenere insieme cielo, terra e comunità.
Scegliamo una montagna dimenticata, solitaria, soprattutto silenziosa. Nessun altro umano nei dintorni, nessun rumore artificiale, solo l’aria secca e pulita dell’inverno. Il bosco è arido, il sentiero ricoperto da un morbido tappeto d’aghi, poi all’improvviso, poco sopra i duemila metri, compare la neve. È poca per la stagione, ma sufficiente a rendere la progressione lenta, faticosa, incerta. Una neve inconsistente, che non sostiene e costringe a scegliere con attenzione ogni passo.
Ci diamo un tempo massimo di salita. Non una quota, non una vetta, ma un’ora, quella in cui il Sole raggiunge il suo zenit, il punto più alto del giorno, al minimo della sua parabola annuale. Arriviamo giusto in tempo sull’anticima, un pulpito naturale affacciato sul vuoto e sul cielo. Un luogo perfetto per il saluto al Sol Invictus, il Sole che, proprio nel momento della sua massima debolezza, promette il ritorno della luce.
Non c’è conquista, non c’è prodezza. Nessuna vetta da rivendicare. Solo la consapevolezza di aver abitato un istante, un tempo sospeso, in cui mito e rito si sovrappongono, e la felicità si manifesta senza rumore, come la luce che torna.