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Val di Mello: la traccia invisibile che regala emozioni antiche

Un percorso antico, di quelli che sembrano esistere solo nei racconti degli avi. Eppure c’è. Trovarlo non è per tutti, percorrerlo ancora meno. Ma consente un vero e proprio viaggio nella storia della montagna e dei suoi frequentatori di un tempo

Poca neve per iniziare a scivolare, cielo velato per mettere le mani sulla roccia e un gelo che comincia a farsi sentire. È la combinazione perfetta per muoversi ai margini dell’inverno, quando l’ambiente concede spiragli di esplorazione e al tempo stesso impone prudenza. Occasioni rare, che invitano a deviare dai sentieri noti per avventurarsi su terreni improbabili, dove le linee non sono tracciate ma intuite.

Tra Valle del Ferro e Val Livincina, in Val di Mello, i vecchi cacciatori di camosci raccontavano di un passaggio misterioso, un varco che si insinua tra pareti vertiginose, proprio sotto la muraglia del Precipizio degli Asteroidi. Di questo percorso si sa poco o nulla. Rimane nei libri istrionici del Merizzi come una suggestione più che una descrizione. Meglio così, è un itinerario che non può essere catalogato né georeferenziato. Può solo essere vissuto da dentro.

L’unica vera indicazione è paradossale: solo se non lo cerchi, si svela. Bisogna accettare di fallire, di tornare indietro a ogni passo, perché è facile ritrovarsi su sottili cenge senza uscita, con ciuffi d’erba che precipitano nel vuoto. Occorre ascoltare il filo sottile che unisce lembi di vegetazione aggrappati alla verticalità del granito, lasciarsi condurre dall’ambiente più che dalle aspettative.

Attraversiamo il torrente, con i macigni vicino all’acqua ancora ricoperti da uno strato insidioso di verglas. Le spettacolari cascate disegnano la valle sospesa, scandita come una gradinata naturale; le Cime del Ferro fanno da schienale al grande circo roccioso. Puntiamo verso il tracciato invisibile che, forse, ci porterà in alto, verso il Pollice e il Pappagallo, slanciati obelischi di pietra che sorvegliano la valle.

Risaliamo canali ricolmi di foglie di faggio, superiamo piccoli risalti, ci avvinghiamo a ginestre e ginepri per guadagnare quota. Da pulpito a pulpito, come su una scala nascosta. Su alcuni faggi secolari, guardiani della valle, troviamo lettere incise, forse l’antico segnavia dei cacciatori. Segni, odori e suoni dei camosci ci accompagnano. Sono loro, più di qualsiasi traccia umana, ad aiutare a trovare la via.

Nei passaggi più intricati compare qualche incavo nella pietra: paiono gradini scolpiti, come quelli che gli antichi contadini della Valle erano soliti realizzare assieme alle scalinate megalitiche indispensabili per raggiungere alpeggi ubicati negli angoli più remoti del Masino. Non lo sappiamo con certezza, ma la curiosità dà senso alla salita e leva la fatica.

Procediamo da approdo ad approdo, per tentativi e deviazioni, non senza la protezione della corda negli attraversamenti più esposti. La curiosità, in fondo, può nutrire anche una semplice escursione al piano… a patto che non sia svelata anzitempo in tutti i suoi dettagli. Conoscere tutto prima di partire e seguire pedissequamente una linea rossa conduce certo alla meta, ma uccide lo stupore dell’inatteso, smorza la domanda su ciò che si nasconde dietro una roccia, oltre un albero, al di là di un ruscello.

Più in alto, la rosa canina – con le sue belle bacche rosse – popola i canali d’erba ascendente e artiglia senza pietà i nostri vestiti. Saliamo, scendiamo, aggiriamo, seguendo uno strano labirinto di indizi che ci conduce al grande abete cresciuto a sbalzo, proprio sotto al “becco” del Pappagallo.

Da questo pulpito il Precipizio ci osserva. Riconosciamo le linee di salita: Oceano Irrazionale, Amplessso Complesso, Le Corna non fan Peso, Self Control. Una cengia alberata porta infine verso la base dello Specchio di Archimede e alla Val Livincina. È orientata a nord, e neve e ghiaccio ci dicono stop.

La via che non c’è si è svelata quel tanto che basta. Per chiuderla, per completarne il disegno, dovremo tornare a primavera.

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