
Rientro da una lunga trasferta all’Est. Non in montagna, ma per parlare di montagna: una piccola conferenza‑dibattito dal titolo “La Carne dell’Orso”, ispirata al celebre racconto di Primo Levi (Ferro), che stimola le domande e invita a riflettere sul fatto che l’unica certezza in montagna, forse, è l’incertezza stessa.
Viviamo in un mondo in cui la sicurezza ossessiona prima di tutto. Ogni giorno slogan ripetuti: “montagna sicura”, “uscita sicura”. Ma cosa significa davvero? Le nostre uscite dovrebbero evidenziare la contraddizione perché devono essere sicure in ambienti la cui natura è mutabile, precaria, imprevedibile. Comunicare l’incertezza è complicatissimo. Eppure osserviamo distratti come più incidenti portino più obblighi, più esperti, più equipaggiamento, più materiali. Mai un’attenzione al rapporto con l’ambiente, con noi stessi. Mai una proposta che implichi un briciolo di evoluzione personale o sociale. Oggi il protocollo fa da verità, come una catena di montaggio, mentre della creatività, dell’intelligenza, cura e bellezza sembra essersi perso il filo.
Cogliere queste sfumature, ancora è fondamentale perché là fuori, il nostro sentire non sottostà a risposte certe. Eppure spesso ci lasciamo imbonire dai venditori di “sicurezza”, da ciò che viene spacciato come verità.
La domanda è quando inizieremo a occuparci di noi e non solo di strumenti, regole, procedure?
Questi temi li ho condivisi in una chiacchierata a San Tomaso Agordino, presso la palestra Vertik Dolomiti dell’amico Valerio. Attorno a noi svettano le cime simboliche dell’Agordino: Civetta, Pelmo, Pale di San Lucano, Moiazza e tante altre pareti verticali, uniche, iconiche, che hanno fatto la storia dell’alpinismo.
Torno in auto e dirigo a Sud, avvisto la brillante e liscia parete grigia del Totoga, il laboratorio di calcare estremo del Mago Manolo. Subito tornano alla mente le immagini delle salite mitologiche di tanti lustri fa, “lucertola schizofrenica”, “solo per vecchi guerrieri”, “ultimo movimento”, “mattino dei maghi”…
La strada passa sotto le pareti poi si entra in galleria. Dall’altro lato si sbuca nella Valle del Vanoi, tra la catena del Lagorai e il massiccio di Cima d’Asta, dove le pareti cambiano radicalmente pelle, forma e natura.
Valerio mi conduce alla base di una bella falesia ben esposta al sole, all’alba era sottozero, ma ora si scala bene, su un granito scuro, placido e solidissimo.
Queste pareti singolari sono state inizialmente esplorate da Flavio Veronese e oggi contano decine di lunghezze, tra monotiri e vie lunghe, grazie anche al gran lavoro di Alessio Conz, Gianfranco Tomio e altri ragazzi della valle. Tutte le linee sono descritte nelle edizioni 2011 e 2019 di Lagorai Rock.
Un granito “dolomitico”, una piacevole sorpresa che ci ricorda quanto la geodiversità sia importante e di come essa sottenda e integri la biodiversità all’interno degli ecosistemi.
Basta percorrere pochi chilometri per osservare quanto le nostre Alpi siano varie, dalle tacche e i buchi da stringere su calcari e dolomie alle prese rotondeggianti da accarezzare su questo granito compatto.
Spesso, distratti, mentre corriamo in auto o ci affanniamo verso una nuova via, ci sfugge questo privilegio.
Qui affiora il granito di Caoria, su due versanti della valle del Torrente Vanoi, in un’area vasta che include Caoria e Canal San Bovo. Non è solo roccia, è memoria, è esperienza, è territorio. Ed è lì, sotto i nostri piedi, che l’arte dell’arrampicare incontra la vita della montagna.