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Yalung Ri, l’Abruzzo piange Paolo Cocco e Marco Di Marcello

Lunedì scorso una valanga sui pendii dello Yalung Ri, 5630 metri, ha causato sette vittime, tre delle quali italiane. In Abruzzo la commozione è fortissima. Forse un’attesa per far stabilizzare la neve avrebbe potuto evitare la tragedia

La valanga che lunedì mattina si è abbattuta sul campo-base dello Yalung Ri e del Drolma Khang ha commosso un’intera regione. Si piange per le vittime anche in Francia, in Germania, in Nepal e in Alto Adige, da cui veniva il trentenne Markus Kirchler, anche lui travolto da quella massa di neve. Si piange a casa di Stefano Farronato e di Alessandro Caputo, i due alpinisti (rispettivamente di Bassano del Grappa e Milano) rinvenuti senza vita ieri mattina dopo essere rimasti bloccati a 5200 metri sul Panbari Himal.

La fine di Paolo Cocco e Marco Di Marcello, però, ha lasciato l’Abruzzo senza fiato. Il primo a esternare i sentimenti di molti è stato Antonio Tavani, sindaco di Fara San Martino. Da New York, dove aveva appena corso la maratona, ha parlato di Cocco, 41 anni, che per cinque anni era stato il suo vicesindaco, come di “un fratello e un amico”. 

“Era uno di noi. Lavorava come grafico a Innsbruck, tornava spesso, e la prima cosa che faceva era salire sulla Maiella. Lo abbiamo salutato alla partenza, lo aspettavamo per sentire i suoi racconti. Conosceva la montagna e sapeva quello che faceva”, ha aggiunto ieri Giuseppe Madonna, presidente della sezione di Fara San Martino del CAI, a Luca Tomassoni che lo ha intervistato per il quotidiano Il Messaggero. 

Parole simili, sui quotidiani, sui siti d’informazione e sui social, si leggono per Marco Di Marcello, 37 anni, biologo di Villa Zaccheo in provincia di Teramo, che da qualche anno si era trasferito a Calgary, sulle Montagne Rocciose. Per questo motivo, era stato definito “canadese” nei primi articoli dedicati alla valanga. 

Uno sguardo ai suoi profili social racconta l’amore di Marco per l’Abruzzo. In una foto del suo matrimonio, celebrato nell’estate 2024, lui e sua moglie si guardano negli occhi a Campo Imperatore, con lo sfondo del Corno Grande del Gran Sasso. Le foto scattate durante l’avvicinamento allo Yalung Ri e al Drolma Khang lo mostrano entusiasta e sorridente, spesso insieme all’amico Paolo Cocco.  

“È stato un mio studente, esuberante, affettuoso, pieno di entusiasmo per la vita” ha scritto di Marco Di Marcello su Facebook Giusi Pitari, professionista ed escursionista aquilana. Si era trasferito in Canada per “inseguire i suoi sogni: lavorare in montagna, magari come guardiaparco, installare video-trappole, contare i grandi mammiferi, vivere ogni giorno immerso nella natura”. “Il suo sogno si era realizzato. Era felice, profondamente felice” conclude la professoressa. 

Le informazioni pubblicate nei giorni scorsi da media nepalesi come Everest Chronicle e The Tourism Times, e riprese dai media italiani, erano corrette solo in parte, e sono state via via aggiornate. Questo in parte spiega, ma certamente non giustifica, le lentezze del nostro Ministero degli Esteri nel confermare l’identità delle vittime. 

La valanga sui pendii dello Yalung Ri non ha colpito gli alpinisti al campo-base ma “poco sotto la vetta”, ha dichiarato a ExplorersWeb Phurba Tenzing Sherpa, un esperto alpinista che ha salito più volte l’Everest. Facevano parte del gruppo della Dreamers Destination, la sua agenzia, Paolo Cocco, Marco Di Marcello e la guida nepalese Padam Tamang, anch’essa uccisa dalla valanga. 

Bhuwan Bharati, direttore dell’agenzia Wilderness Outdoors, ha aggiunto che anche tre componenti del suo gruppo, il tedesco Jakob Schreiber, l’altoatesino Markus Kirchler e la guida nepalese Mere Karki sono rimasti uccisi nella tragedia. La settima vittima, l’alpinista francese Christian André Manfredi, era lì con una terza agenzia, la Yatri Trekking.

A Kathmandu, secondo le nostre fonti, l’identità delle vittime dello Yalung Ri era nota fin da martedì mattina. In Italia, però, il nome di Paolo Cocco è stato confermato dalla Farnesina solo intorno alle 15. Per avere quello di Marco Di Marcello, la cui famiglia continuava a sperare perché il suo tracker continuava a spostarsi sul pendio, è dovuto intervenire personalmente Marco Marsilio, il presidente della Regione Abruzzo. 

Tragedie evitabili?

L’ultima questione, che è ovviamente la più seria, riguarda se e come è possibile prevenire incidenti come quelli di giorni scorsi, dato che le tempeste improvvise accompagnate da forti precipitazioni nevose avvengono spesso nell’Himalaya nepalese, anche negli assolati mesi che seguono il monsone. 

Valter Perlino, l’altro componente della spedizione al Panbari Himal, che si è salvato perché un problema di salute lo ha costretto a scendere in tempo, ha detto più volte (anche a chi scrive) che a causare la morte di Stefano Farronato e Alessandro Caputo sono state le previsioni meteo sbagliate, che annunciavano l’arrivo di una perturbazione 48 ore dopo l’arrivo effettivo. 

Sappiamo che molti dei migliori alpinisti, e le agenzie delle spedizioni commerciali agli “ottomila”, ricevono delle previsioni dettagliatissime, che consentono di ridurre al massimo i rischi connessi al meteo. Ma quanto costano questi servizi? Ed è possibile renderli più diffusi, anche per spedizioni con budget contenuto come quella di Caputo, Farronato e Perlino? E’ un tema su cui vogliamo certamente tornare. 

Un’altra questione riguarda come comportarsi dopo che, sulle montagne nepalesi (e non solo!) sono arrivate delle nevicate copiose. Adriano Favre, espertissima guida alpina della Val d’Ayas, ricorda oggi in un’intervista a La Repubblica di aver rinunciato nei giorni scorsi a un trekking (un trekking!) nel Dolpo dopo che la neve aveva reso a tratti insicuro il terreno. Per le spedizioni alpinistiche questo dovrebbe essere ancora più vero. 

L’altra questione riguarda il comportamento delle agenzie nepalesi. Più volte, nelle cronache degli ultimi anni dall’Everest o dal K2, abbiamo letto che, mentre i team delle agenzie occidentali rinunciavano a causa delle condizioni della neve, quelle dirette e gestite da nepalesi hanno insistito, riuscendo a portare guide e clienti sulle cime. 

Sappiamo che l’atteggiamento “garibaldino” delle pur esperte guide di Seven Summit Treks, di Elite Exped e delle altre agenzie più quotate non paga sempre, come dimostra la morte sotto a due valanghe sullo Shishapangma, due anni fa, delle alpiniste americane Anna Gutu e Gina Rzucidlo e delle loro guide Mingmar Sherpa e Tenjen Lama Sherpa. 

Basta fare una ricerca sul web, o una passeggiata per le strade di Kathmandu o di Pokhara, per vedere che le agenzie più piccole in Nepal sono centinaia, in feroce competizione tra loro. Tutte organizzano trekking senza difficoltà, molte propongono anche spedizioni a “trekking peak” come lo Yalung Ri, l’Island Peak (o Imja Tse) e il Mera Peak. 

Gran parte di queste cime, nonostante l’etichetta che le accomuna, sono tutt’altro che facili. Tutte, dopo nevicate eccezionali, meritano di essere lasciate in pace per qualche giorno in attesa che il manto nevoso si stabilizzi, una regola che vale anche per le montagne europee. 

In Nepal, come altrove, le regole sono quelle del turismo globale, in cui i giorni di ferie dei clienti sono contati e preziosi, e i voli di ritorno non aspettano. Forse, però, attendere per due o tre giorni prima di salire avrebbe potuto evitare la tragedia dello Yalung Ri. 

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