Sulle orme di San Francesco
Oggi si celebra il patrono d’Italia. Ne ripercorriamo i passi e le vicende nella giornata a lui consacrata (e che dall’anno prossimo tornerà ad essere Festa nazionale)
Il Subasio è la montagna dei paradossi. La sua bellezza è orizzontale, scaturisce dall’incontro tra la linea verde delle creste appena ondulate e il cielo; dallo spazio ventoso, aperto all’infinito, che si lascia respirare. Ai suoi piedi sorge una piccola Gerusalemme di pietra rosata. Sulle sue pendici, decine di eremi per colloqui privati con Dio. È questo il monte da cui inizia nel XII secolo la storia di un santo, l’alter Christus, che secoli dopo sarà elevato a patrono d’Italia.
La patente di italianità, mai rivendicata in vita, serve al Poverello “in sora nostra morte corporale” per far carriera: oltre che sugli altari delle chiese, sugli altari della patria. Francesco viene chiamato in causa per ideali a volte faziosi e perfino bellicosi. A partire da Vincenzo Gioberti, che nella sua opera, la più celebre e ottimista, il Primato morale e civile degli italiani, lo descrive come “il più amabile, il più poetico e il più italiano de’ nostri santi!”; fino ai poco pii D’Annunzio e Mussolini che si contendono la definizione “il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Il Duce lo arruola perfino nelle imprese coloniali: “La nave che porta in Oriente il banditore dell’immortale dottrina accoglie alla prora infallibile il destino della stirpe, che ritorna sulla strada dei padri. E i seguaci del Santo che, dopo di lui, mossero verso Levante, furono insieme missionari di Cristo e missionari d’italianità”. Seguito dal podestà di Assisi, Arnaldo Fortini, che nel 1935 incita per radio le truppe al massacro degli etiopi, marciando “per le strade segnate dalle orme sanguinose dei missionari francescani”.
Povero Francesco. Tradito nei suoi passi di pace e mitezza. Dello spirito vero del suo incessante cammino nell’Italia centrale, troviamo eco in una pagina di Aldous Huxley (nel romanzo L’eminenza grigia): “Il frate s’era tirato su il saio e aveva i polpacci nudi infangati fino al ginocchio. Le piogge di primavera avevano trasformato la strada in un pantano. L’ultima volta che v’era passato (…) quella strada era come una fornace da calce (…) Continuando a camminare, il corpo del frate misurava con i piedi scalzi i metri e i minuti, le ore e i chilometri. All’interno, l’anima aveva raggiunto i margini dell’eternità e, in un’estasi di adorazione e di angoscia, contemplato il mistero dell’incarnazione”. Questa la descrizione di un frate cappuccino sulla strada per Roma. Non è Francesco d’Assisi, ma potrebbe esserlo: impolverato, stanco, semicieco, con i piedi “callosi come quelli di un selvaggio, per il loro incessante marciare avanti e indietro attraverso l’Europa”, che “sguazzavano nelle pozzanghere, calcavano sicuri le pietre, battendo il ritmo delle parole. Carità, amore di Cristo, carità…”
Il cammino è un atto di preghiera e meditazione. Francesco lo sa, e cammina. La vita intera si dilata in un’ascesa al Calvario, scandita dalle piaghe sanguinanti del Cristo: egli ne è l’esempio vivente, saranno poi i suoi confratelli, i Minori francescani, a diffondere la pratica devozionale della Via Crucis. Il santo di Assisi vive un’epoca di Crociate, pellegrinaggi e scoperte geografiche, proprio nel Basso Medioevo si riaprono le grandi direttrici spirituali e commerciali. Gli itinerari attraversavano l’Europa da nord a sud, collegando le città imperiali a Roma, per proseguire poi verso il Mediterraneo profondo e la Terrasanta. Uno di questi, il più famoso, ci è tramandato dalla descrizione del vescovo Sigerico, che nel X secolo aveva viaggiato da Canterbury a Roma: si chiamò fin da subito Via Francigena, la via che nasce dalla Francia. Su questa fu concepito Francesco. Il santo di Assisi lega il suo nome a una strada, una strada da misurare a piedi. Ma si tratta di un cammino doloroso. Ogni passo del vero credente è un passo tra le spine, tra chiodi che feriscono la carne, è un grano di quel sanguinoso rosario che terminerà solo sulla vetta, dove lo attende la gloria della croce. Spesso la sua meta è un monte, che nelle Scritture assume vari nomi: Sinai, Tabor, Golgota. Nell’orizzonte di Francesco, è il monte di casa, il Subasio.
La divinità del monte sarebbe attestata anche da una delle etimologie proposte: il nome verrebbe da Sabazio, venerato in Grecia fin dal V secolo a.C. Era il dio della vegetazione, dell’orzo e del grano, ingredienti di una bevanda fermentata che stava alla base di riti orgiastici. Un’antica festa della birra, dunque, con il suggello di un’unione sessuale (simbolica?) con il dio in forma di serpente. Nella Frigia il culto di Sabazio si modellava su quello di Dionisio, mentre a Roma e nell’Italia centrale, dove il culto giunse nel II secolo a.C., si fuse con quello di Mitra, divinità solare di origine vedica festeggiata il 25 dicembre. Non mancavano, nei riti misterici di Sabazio, i miti di morte e resurrezione, tipici delle religioni legate ai solstizi, e l’epiteto di sotèr, salvatore. Un gran guazzabuglio geografico-esoterico, che parte dall’estremo Oriente, s’ingrossa cammin facendo di frammenti e lacerti di ogni religione, da Zoroastro alle predicazioni messianiche mediorentali, si amalgama ai riti della natura delle popolazioni italiche. Lo spirito di Assisi ha origini molto, molto lontane.
Dalla Porziuncola inizia la mia ascesa verso la cima del Subasio. Questo era il quartier generale di Francesco: attorno alla chiesetta i primi confratelli avevano eretto le loro capanne e ancor più umile fu la sistemazione dei 5000 frati accorsi il 30 maggio 1221 per un capitolo che rimase famoso. Come si legge nei Fioretti, “erano in quel campo tetti di graticci e di stuoie, distinti per torme, secondo frati di diverse Province; e però si chiamava quel Capitolo il capitolo de’ graticci ovvero di stuoie. I letti loro si era la piana terra, e chi avea un poco di paglia; i capezzali erano o pietre o legno”.
Il cammino prosegue all’esterno, lungo la cosiddetta “via mattonata”, originariamente il sentiero che portava da Assisi alla Porziuncola e che Francesco mille volte percorse. Poi una vera e propria strada per pellegrini, lunga tre chilometri, che fin dal XIV secolo era pavimentata con mattoni (da cui il nome) nella porzione centrale, a uso dei pedoni, con pietre nelle due porzioni laterali, a uso dei carri. La via mattonata fu la prima strada turistica del mondo, creata apposta per i pellegrini, affiancata da alberi per creare ombra (di una piantumazione settecentesca sopravvivono alcuni esemplari di olmi), arricchita via via di cappelle, ostelli, fontane. La sua fortuna durò fino all’avvento dell’asfalto: un pezzo per volta, nel corso del Novecento, la strada venne mangiata da nuove carrozzabili, lottizzazioni, urbanizzazioni, costruzioni di nuovi quartieri e plessi industriali. Fino a scomparire quasi del tutto. La “nuova mattonata” risale invece al Giubileo del 2000, quando il comune di Assisi lanciò una sottoscrizione popolare (“un mattone per Assisi”) a cui risposero in 30.000 fedeli: abbastanza mattoni dunque per lastricare di nuovo la strada, a colpi di espropri, polemiche, perfino interrogazioni parlamentari. Il suo attuale aspetto è, tristemente, quello classico dell’arredo urbano, artificiale e troppo nuovo.
Diversa l’atmosfera dell’Eremo delle Carceri. Sorge al fondo della ripida sterrata che si imbocca a piedi da Assisi, appena fuori dalla porta dei Cappuccini, e taglia il bosco di querce fino a incontrare l’asfalto della strada panoramica del Subasio. Per questa risalgono, più comodamente, i pullman di pellegrini ed è una lieta sorpresa che l’ingresso non sia il solito bazar di cianfrusaglia religiosa: c’è un solo chiosco di bevande e souvenir.
Poi si esce verso il bosco. Il primo leccio dopo il ponte è quello dove san Francesco predicava agli uccelli: si nota perché è ancorato alla roccia con dei ferri. Il sentiero che percorre la lecceta sopra l’eremo ha lo scopo dichiarato di indurre alla contemplazione del divino attraverso le bellezze del creato. Ma si contraddice nelle cupe grotte a picco sulla forra, oggi chiuse da cancelli, dove Francesco, Leone, Bernardo, Rufino, Egidio, Silvestro, Masseo, e prima di loro antichi eremiti di cui nessuno ricorda il nome e la provenienza, si “carceravano” per contemplare le cose divine. Da questi anfratti, gelidi d’inverno, freddi e umidi d’estate, non si vede cielo né animali, né piante, ma si può solo guardare dentro sé stessi, nel fondo della propria miseria. Dove spesso, al posto di Dio, si incontra il demonio. Come capitò, tra gli altri, a Rufino, al quale il Tentatore appariva in forma di Crocifisso: “E subitamente frate Rufino rispuose al demonio: Apri la bocca e mo vi ti caco; di che il demonio isdegnato, immantinente si partì con tanta tempesta e commozione di pietre di monte Subasio, che era quivi allato, che per grande spazio bastò il rovino delle pietre che caddero giuso; ed era sì grande il percuotere che faceano insieme nel rotolare che sfavillavano fuoco orribile per la valle: e al romore terribile ch’elle faceano, san Francesco e li compagni con grande ammirazione uscirono fuori del luogo a vedere che novità fosse quella; e ancora vi si vede quella mina grandissima di pietre”.
All’Eremo delle Carceri si spegne l’onda dei cinque milioni di pellegrini: più in alto, oltre gli 800 metri di quota, è un altro mondo, riservato a escursionisti, amanti del fuoristrada e del volo libero. Proseguo dunque per il Fosso delle Carceri l’ascesa al Subasio. I segni di quell’antica frana di origine infernale oggi non si vedono più. Il monte, che ai tempi di Francesco era completamente spoglio, è stato oggetto di un imponente rimboschimento voluto da Arnaldo Fortini e realizzato soprattutto tra gli anni 1927 e 1938. Per vent’anni Fortini fu podestà di Assisi, ma aveva un animo umanistico, era cultore di Dante, del poeta latino Sesto Properzio e di san Francesco (ebbe anche una cattedra all’Università di Perugia in Studi Francescani); per un periodo fu anche amico di D’Annunzio, del quale condivideva l’amore per le lettere ma non la licenziosità, e infatti il Vate l’aveva velenosamente soprannominato “frate Arnaldo del Subasio”.
Questi alberi che oggi danno ombra al cammino non sono il merito maggiore di Fortini, che durante la guerra riuscì a salvare Assisi dai bombardamenti: ma sono tanti, quasi quattro milioni di piante messe a dimora su 900 chilometri di terrazzamenti, un lavoro ciclopico a cui parteciparono, a un certo punto, anche i prigionieri di guerra. Come sempre accade nei rimboschimenti, le piante scelte furono le essenze cosiddette pioniere, adatte ad attecchire su suoli aridi. Conifere, Pinus nigra soprattutto, che con il paesaggio di Francesco c’entrano poco.
Nemmeno la strada panoramica ha a che vedere con lo spirito francescano: percorre tutta la dorsale del monte, contornando il Colle San Rufino e sfiorando la cima, da Assisi a Spello, inutile e invasiva espressione del turismo motorizzato. Oggi serve ai cavallari per il trasporto delle bestie e ai club di parapendio; ogni tanto qualche famiglia ci si perde in cerca di panorami, sollevando nuvole di polvere perché gli amministratori, bontà loro, hanno lasciato la strada in gran parte sterrata. Il sentiero, per fortuna, ne resta lontano e l’attraversa solo in prossimità della cresta.
Superata la linea dei 1000 metri, dal bosco si esce sui pascoli aperti, che rappresentano la parte più vera e più spirituale del Subasio. In primavera i fiori sono così fitti che si fatica a non calpestarli. Le orchidee spontanee, presenti in decine di varietà che i botanici chiamano con nomi impossibili come Gymnadenia Conopsea (specie d’alta montagna, che qui cresce anche a bassa quota) o Anacamptis Pyramidalis (la più comune, dal colore acceso che tende al fucsia), rappresentano da sole un buon motivo per mettersi in cammino sul Subasio. E chissà che non fossero loro, le orchidee, che Francesco desiderava intorno ai suoi orti, perché cantassero “quanto è bello il Padre di tutto il creato”.
Un breve tratto di strada sterrata mi porta al rifugio (chiuso) di Vallonica: le piante di lavanda e rabarbaro che crescono nei suoi pressi non appartengono alla natura del Subasio, ma sono esemplari evasi dagli orti officinali dell’Istituto di Botanica di Perugia, che qui aveva un suo campo sperimentale.
Una tozza croce di ferro segna uno dei rari affioramenti rocciosi del monte: il Sasso Piano. La roccia piatta forma dei sedili naturali, dai quali l’escursionista contemplativo guarda il panorama della Valle Umbra. Ai piedi del monte, qualche chilometro a nord-ovest, si vede Assisi che si arrampica come uno strano insetto, la coda formata dalle lunghe arcate cieche su cui poggia la basilica di San Francesco, il corpo acefalo in cui si raggrumano le case medievali, attorno alla cattedrale di San Rufino, e sopra tutto la mole massiccia della Rocca Maggiore, che quando nacque Francesco era nuova di zecca, costruita da appena dieci anni. La città è tutta rosa: è il calcare del Subasio, una roccia che si è sedimentata 195 milioni di anni fa, l’unica ammessa nel panorama urbanistico di Assisi. Questo stesso calcare Francesco, non lo calpestava, ma con i piedi lo carezzava. Come racconta Tommaso da Celano: “Cammina con riverenza sulle pietre, per riguardo a colui, che è detto Pietra. E dovendo recitare il versetto, che dice: Sulla pietra mi hai innalzato, muta così le parole per maggiore rispetto: Sotto i piedi della Pietra tu mi hai innalzato”.
Località Fossa Cieca, 1290 metri. La cima del Subasio non è una vera cima, è solo il punto più alto, il più santo, della lunga dorsale. E quella piccola selva di antenne e ripetitori che sorgono qualche centinaio di metri più a nord non è sufficiente a dissacrarlo. Un cippo di pietra, quattro pannelli che indicano all’escursionista i punti salienti del paesaggio dei quattro punti cardinali: Sibillini, Amiata, i Monti Martani, l’immensità della valle. L’immensità del cielo azzurro e dei pascoli verdeggianti. Vento, tanto vento che riempie la manica posta sul punto di lancio più frequentato, dove vedo posteggiati un paio di furgoni; una dietro l’altra le vele colorate si lanciano nel cielo umbro. Sono convinto che se Francesco vivesse oggi, pure lui vorrebbe volare appeso a un parapendio, il saio gli si gonfierebbe di correnti ascensionali e veleggerebbe lieto sopra Assisi, ringraziando il Signore per frate vento.
(Tratto da Il respiro delle montagne, Paolo Paci, Sperling & Kupfer)