Emozionante viaggio sui luoghi del mito di Paul Preuss
Dalla casa di Altaussee, nel Salzkammergut, dove il fuoriclasse austriaco è nato e cresciuto all’unica parete in cui abbia mai piantato dei chiodi, fino alla pietra tombale che ne custodisce il riposo da quel tragico 3 ottobre 1913


La storia di ciascuno inizia con una casa. È il luogo in cui siamo nati, che ci ha cresciuti o che abbiamo scelto di lasciare, facendo a cambio con altri. La storia di Paul Preuss inizia al civico 53 di Puchenstrasse, adAltaussee, nel Salzkammergut. È un’abitazione con ampie finestre e un patio stretto, in tipico stile stiriano, acquistata nel 1886 dal professore di pianoforte Eduard Preuss, pochi mesi prima che nascesse il suo primogenito. Anche se la vera casa della famiglia Preuss si trovava a Vienna, al civico 39 di Ringstrasse, è qui che ogni estate ed ogni inverno il giovane Paul faceva delle proprie vacanze scolastiche ed universitarie un terreno fertile per diventare il fuoriclasse che tutti conosciamo.
All’ingresso mi accoglie Erik Petterson, 35 anni, musicista: camicia a fiori, cappellino da yankee, guance rubizze ed occhi in tinta con le acque cristalline del lago. La sua bisnonna altri non era che Sophie Preuss, sorella minore di Paul, e quella casa nell’Altaussee è rimasta, perlomeno per quanto riguarda le stanze al piano superiore, esattamente la stessa. Erik mi conduce praticamente ovunque, in un solaio strabordante cimeli: afferra, con la stessa nonchalance con cui pochi minuti prima impugnava la sua chitarra, una piccozza appoggiata al muro e mi dice con grande enfasi che proprio Paul ne era il proprietario. Lo osservo stringerla con un piglio simile a quello che caratterizzava il celebre prozio, perlomeno secondo il monumento in ferro battuto che lo ritrae, realizzato da Walter Andreas Angerer, alias Angerer der Jünger, e posto sulle rive del lago di Altaussee.
Trisselwand, la parete dei sogni
Una corda in canapa troneggia intanto sul passamano delle scale, mentre entriamo nella stanza in cui il giovane Paul ha dormito ogni notte, almeno fino a quel tragico 3 ottobre 1913, quando, ancora una volta in solitaria, precipitò dalla parete nord del Mandlkogel. È piccola, più angusta di tutti gli altri spazi: il letto è un materasso steso per terra, affiancato da uno spartano comodino, e la piccola finestrella dagli infissi bianchi si apre su una vista maestosa. È qui che, nell’autunno del 1894, mentre il resto dei Preuss faceva colazione al piano di sotto, Paul urlò, con la voce squillante dei suoi otto anni. Non riusciva più a muovere le gambe, in preda alla poliomielite che gli verrà diagnosticata poche ore dopo dal medico di famiglia. In questa camera passò, per l’anno e mezzo successivo, i momenti forse più tragici ed immobili della sua vita. È facile immaginarlo sdraiato, lo sguardo rivolto alla finestra, ma soprattutto a ciò che da quella finestra sembra quasi straripare, riversandosi nella camera e nei suoi sogni più reconditi. Si tratta del Trisselwand, la parete rocciosa di 600 metri che sovrasta Altaussee con le sue nervature attraenti, instillando nel giovane Preuss un primo desiderio: quello di rialzarsi per potervisi avventurare. È altrettanto facile immaginarlo poi sotto quella stessa finestra, nel prato verdissimo dove il padre Eduard lo sottoponeva ogni giorno ad estenuanti esercizi ginnici, mosso dalla speranza di poterlo risollevare presto dalla sedia a rotelle in vimini dove il suo unico figlio maschio era costretto. Non so se fu il Trisselwand, la ginnastica oppure il destino, ma Preuss guarì, si alzò e partì, lo sguardo teso verso le sue innumerevoli avventure nelle Alpi. Senza però mai abbandonare veramente Altaussee.
D’altronde, il Salzkammergut continuava ad offrire a Paul, anche dieci anni dopo la sua terribile malattia, una concreta possibilità di esplorare ogni estate quei limiti forse soltanto teorizzati nelle città che, da studente e dottorando di botanica, abitava per gran parte dell’anno: Vienna prima e Monaco di Baviera poi. Entrambe, con i loro kletterngarten, offrivano piccole pareti in quantità, adatte a fare pratica in vista dei possibili grattacapi che si incontravano in scenari decisamente più ampi, come sulle crode dolomitiche. Eppure, per quanto le Dolomiti affascinassero a quel tempo tutti gli scalatori appartenenti alla cerchia di Preuss, il fuoriclasse di Altaussee riusciva a trovare fra le pareti di casa altri non minori e senz’altro succulenti problemi da risolvere. Il già citato Trisselwand, per esempio: una vera e propria big wall che si erge sulla sponda destra del lago di Altaussee, esattamente di fronte al Loser, gruppo di cime che occupa la parte opposta del bacino. E proprio il Loser, ancora adesso, offre un problema misteriosamente irrisolto: la parete nord dell’Hochanger, una delle vette di cui il gruppo si compone, è ancora inviolata e sembra strizzare l’occhio a chiunque voglia provare ad avventurarvisi. Non sorprende dunque che Preuss fosse così affezionato a questi luoghi e alle numerose opportunità alpinistiche che serbavano.
Un traverso, due chiodi. Gli unici.
Tornando al Trisselwand, la parete dei sogni rea – forse – di averlo fatto addirittura guarire, diventerà ben presto, nell’ottica della severissima etica preussiana, una vera e propria parete degli incubi. Fu lì infatti che Paul Preuss, trasgredendo su tutta la linea i suoi stessi “comandamenti”, piantò gli unici due chiodi della propria carriera, gelosamente custoditi oggi da Reinhold Messner. La storia è più o meno questa: nell’estate 1911, Preuss si trovava all’apice del successo. Per dirla con Severino Casara, «dei quaranta giorni correnti fra il 28 luglio e il 5 settembre, quattordici saranno spesi per gli spostamenti fra i gruppi montuosi e per il maltempo, ventisei per salire quarantatré cime lungo le vie più difficili e compiere ben sei prime ascensioni». Fu l’estate delle vie tracciate da Preuss sul Campanil Basso – che qui in Stiria conoscono soltanto con il nome Guglia di Brenta – e sul Totenkirchl, entrambe in solitaria e incarnando con il suo stesso stile di arrampicata un ideale che faceva passare l’utilizzo dei chiodi e la tensione della corda come un’opzione aliena all’alpinismo, persino nell’eventualità che il loro uso divenisse questione di vita o di morte. Questione di vita o di morte lo divenne davvero, per Preuss e per la sorella Mina, alla fine di quell’estate, costringendo il giovane Paul ad un compromesso cui era difficile sottrarsi. I due si trovavano, ormai all’imbrunire ed insieme all’amica di lei Grete Loew e alla guida Hans Hüdl, sull’ultimo traverso della via che solcava il Trisselwand, caratterizzato da una roccia marcia e dalla conseguente possibilità di una lunga caduta non protetta. Fu Hündl ad insistere per l’assicurazione e, grazie a quei due chiodi, Paul riuscì a rendere il traverso più agevole alle due compagne, anche se dovette scegliere fra la necessità di mettere a repentaglio la propria reputazione o a rischio la loro vita. Una situazione scomoda che si tradusse nell’unica vera eccezione ad un’etica altrimenti ferrea, fatta di regole intransigenti.
L’ultima dimora
Prima ancora che per l’etica, però, questi luoghi ricordano Preuss per la sua eterogeneità. Era un alpinista di fatto completo, che aveva trovato una propria dimensione anche sugli sci. Tanto che, dal Natale 1908, aveva preso a registrare le sue pellate nello stesso taccuino utilizzato per le ascensioni su roccia, cominciando dalle prime attività realizzate proprio nel vicino Loser. Lo sci alpinismo era allora uno sport emergente, ma che trovò ben presto in Preuss uno dei suoi precursori più entusiasti. Durante l’inverno successivo salì con gli sci il Großer Priel, la cima più alta dei Totes Gebirge, mentre all’inizio della primavera 1913 compì la prima ascensione scialpinistica del Gran Paradiso. Pochi mesi dopo, arrampicando da solo sul Madlkogel in una fredda giornata di ottobre, Paul Preuss perse la vita. Ma la sua tomba, ospitata nel camposanto di Altaussee, è lontana da tutte le altre, posta quasi in un feroce castigo. Per raggiungerla, occorre attraversare il cancello del cimitero e portarsi all’estrema destra del giardino, dove in un angolo seminascosto – nascondimento che caratterizza anche altre tombe di ebrei stiriani del periodo, solo a parole ben integrati nella comunità – riposano Paul Preuss e la madre, Lina, morta nel 1930.
Arrampicare sulle pareti care a Preuss
Rintracciare le orme di Preuss nell’Altuassee, trascorrendovi alcuni giorni, è un’attività deliziosa e remunerativa. Oltre alla casa – non aperta al pubblico ma ammirabile dall’esterno – e alla sua pietra tombale, è possibile arrampicare sul Trisselwand, seguendo però non più la via originaria di Preuss, caratterizzata oggi da roccia non sicura e per questo impraticabile, bensì due altri itinerari capaci di regalare avventure straordinarie: la via Hoferweg, venti tiri di quinto grado, oppure la Seeblick, una dozzina di tiri su placche ingaggianti di sesto obbligato. Il Trisselwand è raggiungibile anche a piedi, in un trekking che in circa due ore da Grundlsee porta alla croce di vetta, dove finisce gran parte delle vie presente in parete. A proposito di escursioni, consigliamo il giro intorno al lago di Altaussee, sette chilometri e mezzo lungo facili strade forestali, e una capatina al monumento a Preuss installato sulla sua riva sinistra. Anche il Loser – gruppo dove Paul, insieme al padre, iniziò ad effettuare escursioni durante l’infanzia e la prima giovinezza – offre diverse opportunità. Dalla stazione a monte della rinnovata cabinovia panoramica è possibile avventurarsi in un giro ad anello che tocca tutte le quattro vette del gruppo, con una grandiosa vista sul lontano ghiacciaio del Dachstein e sul più vicino lago Augstsee, che le quattro cime contornano. Sempre nel Loser è possibile arrampicare, sia negli spazi di una falesia di recente chiodatura sia su itinerari più classici che corrono lungo la parete sud del massiccio principale, con gradi fino al sesto.
Un’altra casa, un’altra storia
La storia di ciascuno inizia con una casa, abbiamo detto. E ad appena 150 metri da quella in cui nacque e crebbe Paul Preuss ne troviamo una decisamente più grande ma dalla facciata modesta. Ha tre piani, le finestre sono scarsamente decorate e un alto melo copre il legno scrostato degli infissi. Qui viveva Viktor Wessely, fra i migliori alpinisti d’alta quota della sua generazione. Fu sua la seconda salita alla parete est del Monte Rosa, suo e di Oskar Eckenstein il tentativo al K2 del 1902, con conseguente nuovo record mondiale di altitudine, raggiunto ad una quota di 6.600 metri. Del fatto che Wessely e Preuss, separati da appena quindici anni di differenza, si frequentassero davvero non c’è alcuna prova, nonostante la vicinanza geografica lo faccia supporre. Ma questa è un’altra casa. E un’altra storia.