Nel 2009 ricorrerà il cinquantesimo anniversario di una vittoria tutta italiana: la conquista del Kanjut Sar, un colosso di 7760 metri nella catena del Karakorum. La 26esima montagna più alta del pianeta e l’11esima del Pakistan. Protagonisti, da una parte Guido Monzino, un ricco imprenditore milanese, di buona cultura, che scalò la maggior parte delle grandi cime del mondo, aggiudicandosi anche la prima traversata dallo Chateau des Dames, nella conca di Breuil, al Monte Rosa, attraverso il Cervino. Dall’altra il suo piccolo manipolo di guide alpine di Valtournenche.
Tenace e autoritario, Monzino finanziò, organizzò e condivise fisicamente i rischi di ogni impresa. Nel 1959 al Kanjut Sar, Monzino volle con sé Jean Bich, Marcello e Leonardo Carrel, Marcello Lombard, Lorenzo Marimonti, Piero Nava, Camillo Pellissier, Pacifico e Pierino Pession, Lino Tamone e il medico Paolo Cerretelli.
Come era sua abitudine, Monzino pianificò anche questa spedizione con minuzioso scrupolo. Ma il permesso di scalare il Kanjut Sar giunse dal Pakistan con grande ritardo, rischiando di fare saltare l’impresa. Monzino non si diede per vinto. Dispose il trasporto aereo degli uomini e delle 12 tonnellate di materiale fino a Gilgit, la capitale del Gilgit-Baltistán, nel Kashmir settentrionale. Era la prima volta che ciò accadeva nella storia dell’alpinismo himalayano.
L’equipaggiamento, partito da Milano l’8 aprile, giunse a Gilgit solo il 13 maggio, a causa di numerosi contrattempi anche meteorologici. Da Gilgit il materiale fu poi autotrasportato fino a Minapin, e infine, a Nagar. Qui, Monzino scelse 450 portatori per trasportare il tutto sul ghiacciaio Khani Basa, dove, a 5000 metri, fu allestito il campo base.
Anche in questa parte del viaggio non mancarono le difficoltà: a mezza giornata di cammino dal luogo scelto per il campo base, uno sciopero dei portatori rallentò la tabella di marcia. Fu poi la morte di un portatore a turbare gli animi.
All’inizio di luglio gli uomini erano di nuovo fermi, bloccati ai 6110 metri del campo III, questa volta dal maltempo. Con rammarico gli alpinisti dovettero ripiegare vero il campo base. Con il ritorno del bel tempo Monzino e i suoi riuscirono a piazzare i campi IV, V e VI, rispettivamente a 6340, 6670 e 7060 metri.
All’alba del 19 luglio Jean Bich e Camillo Pellissier partirono per il decisivo attacco alla vetta. Ma, colpito da crampi gastrici, Bich dovette abbandonare. Rimasto solo, Pellissier non pensò un solo istante a ripiegare. Spinto da una forza misteriosa, Pellissier avanzò lentamente intagliando i gradini nel ghiaccio, mentre dal campo base i compagni lo seguivano con i binocoli. L’alpinista si lasciò scivolare per il pendio fino alla base della piramide finale, difesa da un’altura che gli nascondeva la vetta. Dopo un estenuante lavoro, l’indomito scalatore sbucò sulla veta più alta del Kanjut Sar. Mentre al campo base gli uomini festeggiavano, Pellissier scattava fotografie della cima. Girò anche mezzo metro di film, in cui si vede il tricolore sventolare legato alla sua picozza.
"Nella nostra vita si possono raggiungere le vette più alte, sempre che ciascuno intenda dare, veramente, il meglio di se stesso" diceva Monzino. Un monito che Pellissier non mancò di applicare in quella sua solitaria impresa.
Jenny Maggioni